Superorganism: ascoltarli è come guardare la puntina del vinile saltellare allegramente sul piatto, una stazione radio impazzita che macina sample (persino sua maestà Scott Walker in “It’s Raining”) strumenti, influenze e attrazioni fatali. Tornano dopo quattro anni in formazione ridotta da otto a cinque (Ruby, Turner e Robert Strange sono usciti dal gruppo) con diversi ospiti di gran lusso, da Stephen Malkmus alle CHAI ma anche Pi Ja Ma, Dylan Cartlidge e Gen Hoshino, sempre all’insegna della più assoluta libertà creativa trascinati dalla voce squillante di Orono Noguchi.
Un filo meno esplosivi, costantemente immersi in un universo parallelo fatto di indie e J-Pop, rap e elettronica, drum machine e distorsioni. Melodie giocose e colorate che puntano a far ballare anche i più restii (copertina del disco docet) esplosioni improvvise come quella che divide a metà “Black Hole Baby”, la sfrontatezza di “Teenager” e i sintetizzatori che spuntano un po’ ovunque. Incombe il fantasma delle Cibo Matto che il filone sfruttato dai Superorganism l’hanno inventato in tempi non sospetti, con un pizzico dell’aura allegra e pazzerella dei Polyphonic Spree.
Esaurito l’effetto sorpresa e anche il gusto della novità che aveva reso così curioso l’esordio omonimo, del superorganismo cosmopolita resta l’entusiasmo e un certo ottimismo che ha resistito anche alle tempeste peggiori. L’ascolto è dunque piacevole e a tratti decisamente divertente, spiccano soprattutto “Flying”, “Into The Sun” e “Don’t Let The Colony Collapse” in un caos musicale che vive di equilibri fragili e solidissimi. L’impatto non è lo stesso del primo album ma funziona, funziona ancora anche grazie alle presenze illustri che danno nuova freschezza a un sound che rischia però di iniziare a ripetere se stesso piuttosto in fretta nel prossimo futuro.
Credit foto: Jack Bridgland