Un attacco feroce e brutale è questo l’incipit che i Bad Breeding danno al loro ultimo lavoro; un album intriso di sonorità hardcore e anarcho-punk che, partendo dall’Inghilterra post-Brexit, avvolgono l’intero globo terrestre, scagliandosi, con veemenza, contro quei meccanismi di controllo, manipolazione e assuefazione sociale che non fanno altro che alimentare il nostro comune senso di impotenza, facendoci sentire perennemente con le spalle al muro e convincendoci del fatto che non abbiamo alcuna possibilità di cambiare le cose, per cui possiamo solamente uniformarci ed omologarci rispetto quello che stabiliscono le varie lobby di potere che governano il mondo e sposando, di conseguenza, comportamenti egoistici, discriminatori e violenti.
La band inglese dona una efficace e vibrante consistenza sonora ai mali da cui è afflitta la società del capitale e del consumo di cui siamo parte: stress, depressione, nevrosi, disagi psicologici, paura, diffidenza, insicurezza, pessimismo rispetto al futuro; macigni che minano la nostra stabilità razionale ed emotiva e che ci spingono, sempre più, ad abbracciare pericolose e dannose politiche di stampo sovranista; politiche che riportano in vita le peggiori ideologie del Novecento, bestialità che dovrebbero essere state sconfitte dalla Storia, ma che, invece, sfruttando la rete globale, le tante fake-news, abilmente prodotte in serie, e lo scarso interesse a conoscere, approfondire e studiare eventi e fatti del passato, vengono, nuovamente, riportate in vita, magari celandole dietro belle parole e un volto rassicurante.
Il problema dell’era digitale che stiamo vivendo è, appunto, quello della mancanza di profondità temporale; siamo incapaci di comprendere il passato e anche di proiettarci verso il futuro, ma preferiamo restare ancorati ad un presente immobile, alle sue comodità , ai suoi privilegi, ai suoi compromessi e ai suoi modelli materiali di benessere. Non ci rendiamo conto, però, che questo approccio passivo non fa altro che risucchiarci tra i bassi e le torbide profondità di “Community”, in una dimensione frustrante e frenetica che ci mette, continuamente, in competizione sfrenata gli uni contro gli altri, rendendoci sempre più soli, sempre più sospettosi, sempre più arrabbiati, ostinatamente imprigionati nelle nostre lugubri e mortali isole d’ossessione.
“Human Capital” è la voce del proletariato del nuovo millennio, che non è più la classe operaia degli anni Settanta e Ottanta, ma è qualcosa di trasversale, fluido, obliquo, eterogeneo e costituito da uomini e donne, giovani e vecchi, studenti e lavoratori, persone che trovano enormi difficoltà nel trovare la propria stabile e pacifica collocazione in un mondo che assomiglia sempre più ad una grande multinazionale e che ragiona solo in termini di domanda e di offerta. Una fabbrica globale con un unico obiettivo che è quello di massimizzare i propri profitti, sottostimando quello è il valore intrinseco delle persone, del loro tempo, delle loro energie, delle loro passioni, dei loro sogni, quel capitale umano che, invece, ciascuno di noi dovrebbe difendere e tenere stretto a sè.