Ultimamente lo si sente dire sempre più spesso: “Better Call Saul” è meglio di “Breaking Bad“. Difficile stabilire se sia vero, perchè, ora che siamo giunti al finale del viaggio di Saul Goodman, appare chiaro quanto si tratti di due show completamente diversi, simili soltanto nella perentorietà con la quale si collocano nell’empireo delle migliori serie televisive di sempre.
Quello che è chiaro è che “Breaking Bad” è un prodotto certamente scuro, ma più orientato all’intrattenimento, mentre invece “Better Call Saul” all’approfondimento, introspettivo e diegetico, che assume i contorni del grande romanzo americano. è anche sicuramente uno show più maturo, cupo e ambiguo, e per questo più difficile da affrontare rispetto alla serie madre. Mentre in “Breaking Bad” si assiste alla caduta verticale verso il male di una mastermind criminale quale Walther White, in “Better Call Saul” assistiamo ad un percorso di trasformazione più difficile, controverso e tormentato.
Vediamo chiaramente le forze esterne agire e deviare il debole e geniale Jimmy, che si trasforma in un mostro quasi suo malgrado, vivendo il passaggio al lato oscuro con perenne titubanza. Tanto che debba poi essere anche un personaggio positivo, l’amore della sua vita, e non solo le sue varie nemesi (su tutte l’odioso fratello Chuck), a spingerlo definitivamente dall’altra parte della carreggiata. Per poi abbandonarlo a conseguenze e rimorsi. Quei regret che Walther White cercherà nel fondo dell’anima di Saul nella sua fugace apparizione.
Pur mantenendo l’apparato ironico e pop della serie madre e alcuni momenti di leggerezza, Gillighan e Gould giocano con i sentimenti del pubblico attraverso una gestione del prima e del dopo “Breaking Bad” assolutamente geniale, utilizzando il senso dell’ineluttabilità trasmesso dagli aspetti noti ““ quali personaggi spariranno dalla vita di Saul, quali non fanno parte dell’universo criminale del futuro di Albuquerque. Non si tratta quindi di scoprire il cosa ma il come, con l’ombra delle assenze ad incombere funesta e onnipresente sul destino di Saul Goodman. Il gioco più azzardoso e crudele ovviamente gli autori lo fanno con Kim, una Rhea Seehorn da incorniciare dalla prima all’ultima apparizione.
A metà del cammino di Saul, incirca alla terza stagione, ho scommesso con me stesso quale sarebbe stata la fine di Saul. Non vi dirò se l’ho vinta o meno, perchè sarebbe uno spoiler gigante come una casa, ma ve la voglio raccontare, a testimonio di quanto la serie sia capace di solleticare la curiosità dello spettatore. Mi dicevo che se i due criminali veri, Gus e Walth hanno meritato la morte e Jesse, di contro più puro di cuore e fagocitato dagli eventi, la libertà , al più meschino e viscido di tutti, Saul, sarebbe spettata la fine più incolore, come incolore è la sua storyline post-Breaking Bad. La prigione. Giusto contrappasso per chi con i suoi micidiali prank l’ha evitata a tanti.
La regia di ciascun episodio, quale più quale meno, così come gli altri comparti tecnici e artistici, è assolutamente cinematografica, la gestione delle storyline magistrale. Gli autori si prendono poi alcuni episodi per giocare con generi e stili con disinvoltura e padronanza che ti viene voglia di vederli presto all’opera al cinema. Nonostante la diversità di queste deviazioni dal solido canovaccio della serie, tutte combaciano alla perfezione con il mosaico finale.
Le scene madri, e sia nella prima metà che nella seconda metà della stagione, ma soprattutto a cavallo tra le due, ce ne sono tante, tengono incollate allo schermo anche se si può immaginare come andranno a finire.
Come era già successo con Chuck, al termine dei loro cicli anche altri nuovi personaggi secondari, come i vari Howard, Nacho e Lalo, risultano assolutamente all’altezza dei vari Mike, Hank e Gus. E, anche qui, parliamo di livello storia della televisione.
Mi chiedeste un difetto di questa stagione, dovrei prendere il lanternino e segnalarvi un eccessivo rilassamento della narrazione prima dello scioccante mid-season final. O forse potrei citare il tanto atteso fan service moment con l’apparizione di Jesse e Walth, forse gestito peggio di quelli che abbiamo visto nelle altre stagioni, che però è fondamentale per esplorare ancora più a fondo, grazie all’ulteriore luce che butta sul ruolo di Goodman in “Breaking Bad”, l’abisso di Jimmy-Saul-Gene.
Ad ogni modo, al momento dell’ultimo fotogramma fa male salutare Saul. Un personaggio che abbiamo conosciuto tanto tempo fa, nella fatidica ‘2*8’ di “Breaking Bad”. Ne sono successe di cose, quella che sembrava una maschera buffa destinata a riempire la serie madre con i suoi colori sgargianti e la geniale e compiaciuta arroganza, con il passare del tempo si è trasformata in uno dei tanti volti di una collezione pirandelliana che non ha precedenti nella storia della televisione e del cinema ““ mi si perdoni se continuo a citare questa benedetta storia. Questo grazie soprattutto alla prestazione attoriale gargantuesca di Bob Odenkirk, una prova che lo consegna all’Olimpo degli attori, televisivi e non. Nell’ultimo episodio, destinato ad imperitura memoria, così come ritroviamo tutti i toni (la tragedia, la commedia brillante, l’azione, il legal thriller) della lunga maratona, le vediamo tutte queste maschere. Il grigio gene che non riesce a scappare, soprattutto da se stesso. Il geniale Saul, nel suo ultimo grandioso colpo di coda. E soprattutto Jimmy che, per l’appunto, si restituisce a Jimmy e a”…
Tra le migliori 10 serie di sempre, e non so, tanto per rispondere al quesito iniziale, se “Breaking Bad” buca questa Top 10.