Giunti al terzo album per i britannici Pale Waves le carte paiono ormai scoperte, e se è vero che tre indizi fanno una prova, come insegna Agatha Christie, allora possiamo non avere più remore nel definire la band di Heather Baron-Gracie un fenomeno pop tout-court, che al massimo potrebbe colpire degli adolescenti affascinati dagli anni duemila (ma ce ne saranno poi?) e poco più.
Non ci sarebbe nemmeno tanto da discutere, e probabilmente un disco come “Unwanted” non dovrebbe nemmeno trovarsi recensito fra queste pagine, ma non farò il purista o lo stroncatore facile per il gusto di; la mia intenzione è provare a inquadrare un album simile al giorno d’oggi, considerato che lo stesso sta entusiasmando copiosamente di qua e di là dell’Oceano, tanto è il consenso generalizzato dei quattro nuovi idoli d’Albione.
Se già i dischi precedenti non brillavano certo per originalità ma potevano essere apprezzati per la freschezza compositiva e il teen spirit, in questo nuovo atteso lavoro i riferimenti si fanno sin troppo espliciti, fino quasi a rasentare il plagio.
Pratica per carità usata anche da insospettabili nomi di culto, ma un conto mi vien da dire è omaggiare un determinato filone o genere musicale, come fece ottimamente dal mio punto di vista la prima Beabadoobee, un altro è finire a scimmiottare degli idoli ormai sbiaditi, se non proprio dimenticati come Avril Lavigne (decisamente la più saccheggiata), Michelle Branch o i Sum 41, che poi si sa che ciclicamente quella è musica che in pratica si supera da sola, all’arrivo di un nuovo fenomeno da spremere.
Ora non voglio passare per cinico, e anzi spezzo volentieri una lancia per gli artisti citati, all’epoca la Lavigne giustamente si ritrovò a spopolare presso un pubblico di giovanissimi che ormai si era stancato delle boy-band o delle Britney Spears di turno.
Ma nella seconda metà del 2022 a chi potrebbe piacere un disco così, smaccatamente pop rock, con le strofe intense e il ritornello trascinante e orecchiabile? Forse a coloro che proprio non sono avvezzi a certe sonorità , gli stessi che probabilmente hanno permesso ai nostri cari Maneskin di ottenere un successo globale, quasi avessero riportato le chitarre elettriche in vita.
Non voglio infierire ulteriormente sui ragazzi, in fondo sono giovani e staranno godendo giustamente del loro momento di gloria, ma personalmente mettendomi all’ascolto delle varie tracce, dall’iniziale e sbarazzina “Lies” – nonostante il tema non sia dei più allegri, quello della falsità che può arrivare a rovinare i rapporti tra le persone -, alla scoppiettante title track, proseguendo con le varie “Jealousy”, “Clean” e “You’re So Vain”, per non dire del singolo acchiappatutto “Reasons To Live” è tutto un tripudio di suoni e refrain accattivanti, canzoni assolutamente “perfette” e prodotte in maniera ottima per colpire al primo ascolto”… sì, ma poi cosa ti rimane?
E’ vero che il tema cambia poi rallentando i toni nelle ballate, dalla dolente “The Hard Way” alla zuccherosa “Without You” senza dimenticare la più struggente “Numb” e la conclusiva “So Sick (Of Missing You)”, una mid-tempo delicata che rievoca un amore perduto con buone intuizioni melodiche, ma anche in questa struttura compositiva e alternanza di mood l’album appare alla fine scontato, senza regalare particolari sussulti durante il suo ascolto.
Credo che la prerogativa del giovane combo inglese fosse quella di battere il ferro finchè era caldo, tenendo presente gli ottimi riscontri soprattutto del precedente “Who Am I?”, pubblicato l’anno scorso, e in tal senso hanno fatto bene a spingere verso una direzione ancora più commerciale e adatta a tutti.
Così facendo però si sono ancora più spersonalizzati e invece sarebbe ora di diventare grandi, proponendo qualcosa di più originale, che sia solo loro e di nessun altro.