Grosse novità in casa Russian Circles. “Gnosis”, il loro ottavo album fresco di stampa su etichetta Sargent House, segna infatti un importante cambiamento nel metodo di lavoro del trio post-metal originario di Chicago. Per dar forma alle sette tracce che compongono il disco Mike Sullivan (chitarra), Brian Cook (basso) e Dave Turncrantz (batteria) hanno infatti deciso di abbandonare gli spazi condivisi della sala prove a favore di un approccio più autonomo e indipendente alla composizione dei brani.
Ognuno di loro ha scritto a casa propria, in solitudine e senza interferenze esterne. Consideratelo pure un esperimento, o forse un retaggio dei lunghi mesi di lockdown: sì alla creatività asettica del confinamento, no a quella sudata e caotica delle jam session. Una piccola rivoluzione per una band da sempre abituata a creare pezzi dall’unione di idee sparse e grezze ““ naturalmente tutte nate nel corso di lunghe sedute di improvvisazione.
Le tracce di “Gnosis”, seppur in termini stilistici non si discostino in maniera eccessiva da quelle contenute nelle uscite più recenti dei Russian Circles, suonano effettivamente più ordinate, omogenee e definite rispetto al recente passato. C’è molta sostanza in questo album; ai fan potrà sembrare una bestemmia, ma alcuni brani di “Gnosis” sono così corposi e ben strutturati da risultare persino sprecati in un contesto privo di voci.
Non è che il trio sta iniziando a stufarsi della produzione di musica interamente strumentale? Forse qualche timido segnale in questo senso c’è. Ma il post-metal atmosferico, dinamico, catartico, “riffocentrico” e contaminato proposto dai Russia Circles continua a essere stimolante anche così com’è.
Diretto, avvincente, dannatamente pesante e privo di inutili tecnicismi: “Gnosis” non fa urlare al miracolo ma risulta comunque essere un disco più che convincente, ricco di sfumature e capace di spaziare tra generi e mood diversi. Un lavoro ben costruito in cui coesistono in totale armonia luminose melodie dall’alto tasso di commozione (“Bloom”, “à“ Braonáin), oscure ombre dai toni doom/black metal (“Betrayal”, “Vlastimil”) e lampi di complessità in salsa progressive (“Tupilak”, “Gnosis”). Da non perdere per alcun motivo al mondo la devastante “Conduit”, che da sola vale un mezzo voto in più.