è il 14 settembre del 1992 e il mondo del rock, già sopraffatto dal tornado del grunge, viene improvvisamente travolto da un uragano di tristezza e sconforto chiamato “Down Colorful Hill”. Un album figlio delle innumerevoli turbe del suo autore – un Mark Kozelek ancora giovanissimo ma già angustiato da indicibili tormenti ““ talmente crudo e viscerale da essere composto solo ed esclusivamente da vecchie demo registrate a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90.
Una raccolta di pezzi grezzi e pieni di imperfezioni che, con qualche piccolo aggiustamento in fase di missaggio, viene pubblicata all’alba della stagione più amara ““ l’autunno, à§a va sans dire ““ dai tipi lungimiranti della 4AD, storica label indipendente fondata da quell’Ivo Watts-Russell che qualcuno ricorderà anche come membro dei This Mortal Coil.
è anche merito suo se oggi, a distanza di trent’anni dal debutto, siamo ancora qui a parlare dei Red House Painters, campioni di malinconia e pionieri di un genere musicale triste sin dal nome: il sadcore. O slowcore, come preferiscono chiamarlo alcuni – d’altronde, le differenze sono minime o forse addirittura inesistenti. Sta di fatto che le etichette valgono quel che valgono. E un album struggente, profondo e bellissimo come “Down Colorful Hill” non può essere classificato realmente in alcuna maniera.
Le chitarre acustiche lo avvicinano al folk, mentre le melodie soffici ma intrise di mestizia lo spingono verso i lidi del dream pop più cupo e deprimente. I tempi estremamente lenti, dettati da una sezione ritmica quanto mai scarna e minimale, sono forse il vero asso nella manica della band statunitense. Il gruppo dilata oltremisura la durata dei brani (spesso si superano i cinque minuti, a volte si sfiorano anche i dieci) per rendere più intensa e coinvolgente l’esperienza dell’ascolto. Ci si immerge letteralmente nel dolore immenso che affligge il povero Mark Kozelek – la cui voce, ancora un po’ acerba ma straordinariamente cristallina, a volte sembra incrinarsi sotto il peso insopportabile delle emozioni.
Miseria, isolamento, emarginazione, dipendenze, paura di invecchiare, pensieri suicidi e cuori spezzati: i Red House Painters di “Down Colorful Hill” non sanno fare altro che crogiolarsi nella tristezza più profonda. Il loro viaggio nei meandri del mal di vivere è però così genuino da non suonare in alcun modo fastidioso. A Kozelek e compagni non piace piangersi addosso; la loro non è indolenza, ma desiderio di renderci partecipi del loro malessere.
Un principio che, in qualche modo, viene reso in maniera esplicita nella canzone probabilmente più rappresentativa dell’intero album, ovvero la devastante “Medicine Bottle”. Una ballad tenebrosa e al tempo stesso dolce che inizia con questi versi: Giving in to love/And sharing my time/Letting someone into my misery.
Il brano è a tutti gli effetti il racconto di una storia d’amore tra un uomo assuefatto alla solitudine e una donna che, senza successo, prova a buttare giù il muro che li divide, ricorrendo tra l’altro a una serie di considerazioni costruttive che stonano parecchio col mood deprimente di “Down Colorful Hill” (You’re building a wall, she said/Higher than the both of us/So try living life instead of hiding in the bedroom/Show me a smile and I’ll promise not to leave you). La relazione naturalmente finisce male e l’uomo torna a chiudersi in sè stesso, autocondannandosi a uno stato di isolamento assoluto; lontano da tutto e tutti, dice di sentirsi come un feto che scalcia nel grembo materno (I’ve not been so alone/I thought, since kicking in the womb).
Le atmosfere rarefatte di “24” e la marcetta lamentosa (ma commovente) della title track non sono troppo lontane dai toni desolanti di “Medicine Bottle”; gli arpeggi elettrici di “Japanese To English”, invece, regalano un po’ di vivacità a un pezzo tutto incentrato sul rimorso per un amore andato in frantumi per problemi di comunicazione (il titolo parla chiaro, d’altronde).
Le chitarre distorte di “Lord Kill The Pain” – una canzone a metà strada tra grunge e folk che colpisce per velocità ed energia – fanno da contorno alla preghiera violenta di un Mark Kozelek che chiede a Dio di “uccidere” il dolore che lo angustia facendogli fuori la fidanzata fedifraga, i vicini di casa impiccioni e i parenti rompipalle. Il suo unico sogno è vivere da solo e in pace in un paese inondato dalla pioggia perenne (Lord let it rain forever/Don’t want to ask you again/Drown my country/Drown everyone but me/So I can live peacefully).
Un’ultima botta di rabbia adolescenziale prima di affogare nei ricordi, questa volta stranamente teneri, di “Michael”, una ballad delicatissima che Kozelek dedica al migliore amico col quale ha condiviso gli anni della sua gioventù in Ohio. Una carezza dal gusto nostalgico a chiudere un album di straziante e meravigliosa bellezza.
Data di pubblicazione: 14 settembre 1992
Tracce: 6
Lunghezza: 43:35
Etichetta: 4AD
Produttore: Mark Kozelek
Tracklist:
1. 24
2. Medicine Bottle
3. Down Colorful Hill
4. Japanese To English
5. Lord Kill The Pain
6. Michael