Chissà se se lo sentivano, David e Harriet, che questo terzo loro album sarebbe stato l’ultimo, chissà se avevano questa sensazione che il titolo “Static & Silence” avrebbe rappresentato, musicalmente parlando, gli anni a venire. Non lo so, eppure, a volte mi piace pensarlo: una coppia, anche nella vita, che decide di smettere di fare musica, preferendo la famiglia, le relazioni, la quotidianità classica, preferendo la stataticità di una vita “più ordinaria” rispetto alla mobilità del musicista, preferendo il silenzio al rumore delle chitarre.
Si conclude con questo pregevole disco la carriera di una band che, nei primissimi anni ’90, era stata etichettata come pronta a ricevere il testimone degli Smiths. Che fardello. Eppure la grazia e gli ideali di David e Harriet non sono mai stati scalfiti, anzi, fedeli ai loro principi, prima di approcciarsi al nuovo album dopo “Blind” (1992), fecero passare ben 5 anni, in cui, musicalmente parlando era successo davvero di tutto tra grunge e britpop.
La ricetta del duo resta più o meno invariata, anche se a certe oscurità del disco precedente, che guardava anche in casa Cocteau Twins, qui si preferisce essere un po’ più solari e variegati, con l’aggiunta di un pizzico folk e di profumi Fleetwood Mac, giusto per rendere più intrigante e accattivante il tutto, non disdegnando anche qualche arrangiamento più elaborato rispetto al passato. Ma i Sundays sono sempre loro, nel bene e nel male, con le loro magiche suggestioni, con quelle chitarre gentili che infondono malinconia e intimismo, trasmettendo introspezione e profondità e la voce di Harriet Wheeler che, come sempre, riesce incredibilmente a muoversi su un registro maturo e avvolgente eppure anche così semplicemente adolescenziale, incredibile.
Potrà anche far sorridere, ora, “Summertime”, con quei tocchi di tastiera un po’ datati, eppure con il suo andamento delicato e irresistibilmente pop ci predispone alla serenità , ci fa stare bene. Ecco che in “Homeward” fa capolino quel folk di cui parlavo prima. Una canzone superlativa, realizzata con pochi elementi e capace di arrivare dritta al cuore proprio per la forza della melodia e della sensibilità messa in campo: io in quel finale in crescendo, con la Wheeler che sale di tono dicendo “It’s dumb – I know what I want to say, But I can’t even take one breath, So now still burning silently away, A storm without the thunder“, ho sempre la pelle d’oca, per non dire le lacrime.
Eccoli i due estremi dei Sundays, che sanno essere “facili” eppure anche così sensibili. Pare semplice. Pare.
Nel resto dell’album non mancano le canzoni che lasciano un segno. “Folk Song” con i suoi archi e la melodia struggente, “She” che sembra riprendere i Sundays dei lavori precedenti, la bucolica “I Can’t Wait” e i fiati che fanno capolino e la morbidissima “Leave This City”. Oltre al singolo “Summertime” ricordiamo con piacere anche “Cry”, arrangiata in modo da mettere in luce il lato più autunnale del brano, con un ritornello semplicissimo eppure così riuscito.
Con “Monochrome” si chiude il disco e, tutto sommato anche la carriera di questa band. Una bellissima canzone, delicata e finemente curata, che parla dell’allunaggio dell’Apollo e di un uomo che passeggia su quella luna che fa capolino anche nella copertina del disco. Una luna che ci guarda da sempre e sorride dei nostri affanni, una luna che forse dovremmo ammirare più spesso, alla ricerca di un doveroso e monocromatico silenzio in mezzo a tutto questo frastuono inutile che ci circonda…
Pubblicazione: 22 settembre 1997
Durata: 38:46 (UK), 42:14 (USA)
Tracce: 11 (12 nella versione USA)
Genere: Indie-pop, Folk, Dream-pop
Etichetta: Parlophone/Geffen Records
Produttori: David Gavurin, Harriet Wheeler
Tracklist:
Summertime
Homeward
Folk Song
She
When I’m Thinking About You
I Can’t Wait
Another Flavour
Leave This City
Your Eyes
Cry
Monochrome