Arriva finalmente in Italia per una manciata di concerti anche Matt Elliott, che, a dirla tutta, da noi è passato spesso e volentieri.
Però, queste erano date già in programma lo scorso Febbraio, periodo molto ipotetico del post covid e su quella che potesse essere da lì a poco un’auspicata ripartenza, per cui, nell’incertezza, decisero di rimandare a tempi migliori.
Quindi i primi giorni d’autunno, crepuscolare e un po’ sofferto con tutte le ansie del cambio stagione, clima e colori perfetti per le scelte sonore del buon Matt, che con la sua musica acustica e tenebrosa si colloca al posto giusto per cullare l’ascoltatore. Ancora meglio se si parla di una lazy Sunday orario tramonto.
Siamo al Bloom, locale cult di Mezzago, che ospita il songwriter inglese di stanza in Francia, all’interno di un giro di concerti che ha visto toccare anche Bologna, Torino, Firenze, Cornuda (TV) e Roma.
Attivo da oltre due decadi anche e sovente con il moniker di Third Eye Foundation, è un monumento della scena underground, carriera senza alcun tipo di compromesso e la continua ricerca di una forma canzone autoritaria e personale.
Non ha un album recente da promuovere anche se fa parte di quegli sfortunati artisti inghiottiti dall’infausto 2020 proprio mentre erano alle prese con la pubblicazione del nuovo lavoro, il suo “Farewell to all we know” (aa cui, per esempio, questa sera recupera la stessa title track o la bellissima “The day after that”), uscito appunto un paio di anni fa, solo l’ultimo di una sterminata discografia che ha visto probabilmente il climax nell’osannato “Drinking Songs” del 2005, se non fosse altro per un plebiscito di consensi che scaturì quella raccolta.
Dicevo orario aperitivo, bellissimo per una domenica: aprono i Long Gone alle 18,30 precise, collettivo milanese che non avevo mai sentito, fuori dai giri, timidi ma coerenti con la loro musica, canzoni già ad un primo ascolto interessanti, un misto di indie rock e un certo post rock anni zero, con tanto di voce filtrata marchio di fabbrica del progetto Sparklehorse del compianto Mark Linkous, da risentire sicuramente su disco.
Matt Elliott on stage per le 19,15, in consueta tenuta solitaria, chitarra classica, un sax e la sua arte.
Sceglie l’approccio totalmente free e sperimentale alle sue canzoni rarefatte e malinconiche, quindi il brano viene destrutturato e le parti di chitarra messe in loop in tempo reale, tanto da creare un tappeto sonoro, una sorta di suite, che tocca tranquillamente i dieci minuti a pezzo, sul quale ricamare ulteriormente altre intuizioni, sia di chitarra stessa, o parti di sax a loro volta trattate nel medesimo modo, quindi ulteriori vocalizzi accompagnatori.
Tant’è che la setlist è fatta di cinque brani, non stiamo certo parlando di un concerto tradizionale, siamo in una sorta di viaggio dove tutto è concesso, trovata, appunto, una via sperimentale, ma che arriva ragionata, quasi fosse calcolata nella sua dilatazione.
Lui è altresì bravissimo, ma non lo si scopre certo oggi e questa formula tutta sua, vuoi per esigenze da one man band, vuoi per scelta, magari non sarà per tutti i palati, ma risulta molto convincente e spontanea.
Un’ora e quindici minuti di concerto e sinceri applausi di un buon pubblico a salutare l’ultima data di questo tour italiano.