But here we are the rolling people
Can’t stay for long
We gotta go
La miglior metafora per raccontare la parabola dei Verve sta tutta racchiusa nel testo di “Rolling People”, traccia nr. 2 di “Urban Hymns”, disco della consacrazione della band di Wigan, cittadina nota per le sue fabbriche di moquette e le fonderie, a pochi chilometri da Manchester.
Come se stessero rotolando giù da una collina, subito dopo averne raggiunto l’apice, così i Verve hanno sempre dato l’impressione che non sarebbero durati in eterno.
La loro storia infatti narrava di litigi, divisioni e riunioni sotto pressioni della casa discografica.
Tecnicamente i primi due album della band avevano un altro spessore: “A Storm In Heaven” era un lungo viaggio lisergico e shoegazer per palati esigenti mentre il secondo “A Northern Soul” pur smussando gli angoli convinceva i più scettici che, dato per scontato il declino degli Oasis, sarebbero stati loro a raccoglierne l’eredità mancuniana.
Nelle impostazioni del mixer si capisce quanto i produttori (Verve, Chris Potter, Youth) volessero prendere le distanze dalle precedenti releases: la voce è sparata a manetta e sovrasta gli strumenti, invece di esserne quasi di sottofondo, la chitarra è nitida se acustica mentre è tagliente se elettrica, il basso è molto profondo ma delicato.
Ma per piacere al grande pubblico alternativo (e non) mancava la hit, quel motivetto che chiunque poteva fischiettare in ogni angolo del pianeta. Così ecco che prendendo spunto da un vecchio singolo dei Rolling Stones “The Last Time”, Richard Ashcroft e soci piazzano il colpo vincente: “Bittersweet Symphony”, un brano che sa di inno generazionale degli anni ’90, con quel motivetto di archi ripetuto in un loop ossessivo infinito, che rimane in testa ben dopo aver spento lo stereo.
Al di la dell’incipit, questo lunghissimo disco (1h15min!) ha vari spunti: le ballate che esaltano la voce suadente anche se nasale di Richard Ashcroft come “Sonnet”, “Lucky Man” e “The Drugs Don’t Work”. Poi ci sono i brani travolgenti tipo “Rolling People”, “Come On”, “Catching The Butterfly” e “Neon Wilderness”, ricchi di schitarrate distorte e reminiscenze shoegazer e psichedeliche. Infine dei bei midtempo come “Space And Time” e “Velvet Morning” con queste chitarre eteree che riempiono gli spazi.
Ma quel gusto dolce amaro / bitter sweet l’album era davvero destinato a lasciarlo: i Verve nel bel mezzo del tour americano si sciolgono e lasciamo milioni di fan (me compreso) a bocca asciutta.
Riascoltandolo per questa recensione ho potuto gustare, ex post, l’immensa dimensione dell’opera, questa volta in vinile: pur se inutilmente suddiviso su due dischi, passa tanto tempo tra un cambio di facciata e l’altro e riesce a perdersi nelle mille sfumature soniche: ed ecco lo Wah Wah che ti eri dimenticato (“Weeping Willow”) o la batteria appoggiata del finalone di “Space and Time”. E quella voce sovradimensionata di Richard Ashcroft, beh, ha un suo why ed un suo because”…
Una volta riposto nella custodia, questo album fa venire voglia di uscire in strada a prendere a spallate tutti quelli che ti si piazzano davanti come nel celebre video di “Bittersweet Synphony”. Come “gente rotolante”, Rolling Stones, o chi più ne ha più ne metta.
THE VERVE ““ “URBAN HYMNS”³
Data di pubblicazione: 29 settembre 1997
Tracce: 14
Durata: 75:51
Etichetta: Hut
Produttore: Chris Potter, Martin Glover
Tracklist:
1. Bitter Sweet Symphony
2. Sonnet
3. The Rolling People
4. The Drugs Don’t Work
5. Catching the Butterfly
6. Neon Wilderness
7. Space and Time
8. Weeping Willow
9. Lucky Man
10. One Day
11. This Time
12. Velvet Morning
13. Come On
14. Deep Freeze (ghost track)