C’è qualcosa di diverso nel secondo album di Tamino e lo si capisce fin dalla foto in copertina: un ritratto in bianco e nero mentre imbraccia la chitarra, che rimanda a mille scatti simili in ambito jazz, folk, rock. Segno evidente del suo bisogno di sentirsi ed essere considerato un artista completo, a tutto tondo, dopo il successo di critica e pubblico del bell’esordio “Amir”. “Sahar” è una conferma del talento e del magnetismo del musicista belga con chiare origini mediorientali (egiziane e libanesi) che emergono con sempre maggior forza nel modo di usare la voce e nelle nuove canzoni che scrive.
Dieci brani nati nel suo appartamento di Anversa per poi essere rifiniti con l’aiuto del produttore PJ Maertens, del batterista Ruben Vanhoutte e di Colin Greenwood dei Radiohead che suona il basso in tutto l’album. Presenza discreta la sua, adatta all’atmosfera di un disco meno rabbioso e immediato, decisamente più malinconico, dove domina il desiderio e la nostalgia è costante fin dalle prime note della dolorosa “The Longing”, ribadita dagli inserti orchestrali di “The Flame”. Sentimenti che popolano anche “You Don’t Own Me”, accorato appello alla libertà che ripudia ogni violenza. “The First Disciple” e “A Drop of Blood” sono i pezzi più spirituali, “My Dearest Friend and Enemy” è invece puro folk.
Strumenti tradizionali come l’oud si uniscono alla chitarra e al pianoforte nelle numerose, intense ballate in cui Tamino sta diventando maestro: “Fascination” mette in mostra il suo lato pop, il duetto con Angèle (“Sunflower”) e “Only Our Love” quello più romantico, “Cinnamon” screziata di elettronica ha un sound decisamente moderno. Ha trovato la sua strada il ragazzo belga e continuerà a percorrerla mescolando abilmente oriente e occidente. Voleva registrare un album che non fosse per forza figlio del suo tempo e “Sahar” riesce nell’intento, rivelando una vena compositiva fertile, calda, intrigante, che punta al dialogo tra culture e tradizioni.
Credit foto: Herman Selleslags