Nell’iconica foto di copertina di “Heroes”, lo sguardo stralunato di David Bowie sembra appartenere a un essere privo di vita. La mano sollevata in aria sembra aver appena rimosso l’ennesima maschera. Ziggy Stardust aveva fatto ritorno al suo pianeta natale al termine del concerto all’Hammersmith Odeon di Londra il 3 luglio 1973. Il fulmine disegnato sul volto di Aladdin Sane sarebbe riapparso solo qualche anno più tardi sulle magliette di migliaia di persone, la maggior parte delle quali non ha mai ascoltato una singola nota della musica di Bowie. L’Halloween Jack di “Diamond Dogs” era confinato nello squallore distopico di Hunger City. Il Thin White Duke di “Station to Station” aveva lasciato la cocaina e le paranoie a Los Angeles per cercare un nuovo inizio. A metà  anni ’70, dopo aver abbandonato abiti eleganti e panciotto negli Stati Uniti, Bowie aveva ucciso silenziosamente il suo ultimo personaggio per cercare di salvarsi nella grigia Berlino divisa dal muro. Un luogo dove, libero dalla fama e dalle sue innumerevoli maschere, poteva finalmente essere davvero se stesso per la prima volta in carriera.
“Heroes” è il disco più “berlinese” della celebre trilogia bowiana: si colloca esattamente al centro tra la malinconica avanguardia di “Low” e il timido ritorno al pop di “Lodger”. L’album è stato registrato nell’estate del 1977 agli Hansa By The Wall Studios, un ex stabile della Gestapo che si trovava a quattrocento metri dal muro che separava la parte ovest da quella est della capitale tedesca. Mentre David Bowie lavorava alle canzoni in compagnia dello storico produttore Tony Visconti e del genio ambient Brian Eno, a poca distanza si trovavano filo spinato, mine sepolte nel terreno e guardie russe che, come raccontato da Visconti, guardavano con i binocoli e i loro fucili Stein in spalla.

“Heroes” nasce proprio all’ombra del muro; un’ombra terribile e minacciosa, ma in grado di innescare un processo creativo quasi unico nella storia del rock. Nonostante l’atmosfera plumbea, è un album decisamente più “solare” rispetto al suo predecessore “Low”: basti ascoltare lo scanzonato incontro tra new wave e disco music di “Beauty and the Beast” e le finte stonature krautrock di “Joe the Lion” per farsi un’idea. Ma è anche un lavoro complesso ed estremamente innovativo, nel quale Bowie recupera i freddi suoni sintetici portati in dote da Eno in “Low” e li fa davvero suoi, contribuendo in maniera determinante alla definizione degli stilemi della new wave che all’epoca stava cominciando a conquistare il mondo. Questa rivoluzione passa anche attraverso il suadente sassofono di “Sons of the Silent Age” e le chitarre di “Blackout”, un fuorviante ritorno al glam rock dei primi anni ’70. Discorso a parte per i quattro strumentali che aprono il lato b di “Heroes”, nei quali riemergono le atmosfere rarefatte e ambient dell’album precedente. Se “V-2 Schneider” rappresenta un energico ed elettrico omaggio ai Kraftwerk (uno dei fondatori della seminale band elettronica tedesca si chiama proprio Florian Schneider) e “Moss Garden” colpisce per le sue inattese sfumature orientali (qui David Bowie suona il koto, un tradizionale strumento giapponese), in “Sense of Doubt” e “Neuköln” riappaiono ““ anche se in maniera meno riuscita ““ l’oscurità  e l’inquietudine di due capolavori strumentali di “Low” come “Warszawa” e “Subterraneans”. L’album si chiude con il groove contagioso di “The Secret Life of Arabia”, una canzone incredibilmente radio-friendly che, in qualche modo, anticipa alcuni elementi di “Lodger” e “Scary Monsters (And Super Creeps)”, oltre a lanciare le prime avvisaglie della svolta dance-pop di “Let’s Dance”.

Il brano simbolo dell’album è naturalmente la celebre title track, “Heroes”: sei minuti che hanno consegnato alla leggenda il suo autore, qui protagonista di una delle sue interpretazioni più intense e toccanti. E pensare che il brano sarebbe potuto restare strumentale, complice l’incredibile chitarra di Robert Fripp dei King Crimson che riempie efficacemente la scena. L’incisione della traccia vocale fu uno degli ultimi atti delle sessions agli Hansa By The Wall Studios; fu registrata quando tutti i musicisti erano già  partiti per tornare a casa, lasciando Bowie e Visconti soli nella capitale tedesca a limare gli ultimi dettagli.
Buona parte del testo di “Heroes” ruota attorno alle debolezze e alle difficoltà  attraversate all’epoca dal cantante nato a Brixton nel 1947: la dipendenza dall’alcol che aveva sostituito la cocaina; la crisi coniugale con la moglie Angie Barnett, dalla quale avrebbe divorziato solo tre anni dopo. Ma sono l’ottimismo e la voglia di vivere ad avere la meglio, rappresentati dalla coppia di amanti che, “in piedi accanto al Muro” e con i fucili “che sparano sopra le loro teste”, si baciano come nulla fosse. Sono loro i veri eroi della canzone, capaci ““ come disse qualche anno dopo lo stesso Bowie ““ di “guardare in faccia la realtà  e affrontarla”, traendo “un po’ di gioia dal semplice piacere di essere vivi”.

Probabilmente “Heroes” non è il miglior album della trilogia berlinese – “Low” ha un fascino oscuro e “sotterraneo” che resta immutato a distanza di quarant’anni ““ ma è, senza ombra di dubbio, il più rappresentativo. Non solo di quel determinato periodo, ma di tutta un’incredibile carriera costellata di capolavori e successi. Noi comuni mortali possiamo continuare a sognare di essere “eroi anche solo per un giorno”; da qualche parte c’è una “stella nera” che ci sorriderà  ancora per molto tempo.

David Bowie ““ “Heroes”
Data di pubblicazione: 14 ottobre 1977
Tracce: 10
Lunghezza: 40:19
Etichetta: RCA
Produttori: David Bowie, Tony Visconti

Tracklist:
1. Beauty and the Beast
2. Joe the Lion
3. Heroes
4. Sons of the Silent Age
5. Blackout
6. V-2 Schneider
7. Sense of Doubt
8. Moss Garden
9. Neuköln
10. The Secret Life of Arabia