di Gianluca Quadri e Riccardo Cavrioli
Quando parlavo del nuovo album dei Two Door Cinema Club ricordavo un lontanissimo concerto ai Magazzini Generali di Milano dove, in apertura, c’erano proprio i The 1975. Non era ancora uscito un EP, le canzoni che ascoltavamo erano in anteprima e la carica di quei ragazzi all’inizio della loro carriera era formidabile. Forse il loro breve set è stato ancora meglio di quello del gruppo principale.
A distanza di anni la band di Matt Healy è sicuramente cresciuta, scoprendo nuovi generi già preesistenti e abbracciandoli, mantenendo quella vena indie-pop che alle ragazzine inglesi piace tanto. Il loro album di debutto omonimo ricevette così tanto clamore da mandarli alti nelle classifiche e non è stato certo l’unico loro disco a raggiungere certe vette, anzi. Ora, da piccoli ragazzi agli inizi, i The 1975, che nelle interviste non perdono la loro carica di spavalderia, cercano di aspirare ad essere la prima boy-band alternative del mondo. Non riuscendoci però, travolti da un ego eccessivo di gente che si prende fin troppo sul serio.
Partiamo dal presupposto che gli album con titoli troppo lunghi hanno rotto le scatole, in più ci mettiamo anche il fatto che, a rigor di logica, i tempi cambiano e di queste cose ne abbiamo sentite e risentite (pure dagli stessi 1975 che a volte paiono auto citarsi all’infinito). Sottolineiamo pure che, per questo album, l’accozzaglia di spunti si eleva ai soliti livelli oltre il lecito, facendoci pensare che, per lo più, non stiamo ascoltando loro nell’effettivo, ma una stazione radiofonica dedita agli anni ’80 o, ebbene si, i Bon Iver. Infatti, proprio col primo singolo dal titolo “Part Of The Band”, al primo ascolto dici “cazzo, ma questi sono…”, al secondo sei sempre convinto, finchè al terzo non ti arrabbi per la “scopiazzata”. Con una presentazione del genere il gruppo, in successione, fa uscire svariati singoli (piu’ o meno tutti prevedibili) come piccole pillole in attesa del prodotto finale.
“I’m In Love With You” è una canzone anni ’80 di quelle bruttine e banalotte (e ce ne sono state) che è nient’altro che il continuum del loro stile da ragazzini “un po’ strani e alternativi”. Format oramai trito e ritrito. Il ritornello e la linea melodica è sempre la stessa, cosa che, bene o male, ritornerà di prepotenza per quasi tutto l’album. Può piacere, giusto se si è al supermercato a fare la spesa o se devi fare il mix per la fanciulla che vuoi portare la domenica pomeriggio in discoteca.
“Happiness” riprende i giri di chitarra che li hanno resi famosi, con quella batteria elettronica in background e la registrazioni di voci. Mettiamoci pure gli ottoni e siamo di nuovo, ripeto, negli anni ’80 più scontati e senza rischio alcuno, terreno di conquista prediletto ormai per i 1975. Altro singolo uscito, “All I Need To Hear” è una love ballad piano, voce, chitarra e batteria che un po’ si rifà sempre allo stile Bon Iver degli inizi o semplicemente a qualsiasi canzone lenta di dubbio gusto, tra soul ed r&b. Un mood simile, ancora più notturno se vogliamo, ritorna anche nella morbidosa “Human Too”, con tanto di Matt in falsetto. Ma da qui a strapparsi i capelli ce ne passa.
Ogni tanto la mano di Jack Antonoff fa capolino (“Looking For Somebody”) ma sempre nel solito campo da giochi stiamo razzolando, idem in “Oh Caroline”, se vogliamo giusto più curata nella ritmica, ma scritta col pilota automatico e con i soliti anni ’80 nella mente. “Wintering” è simpatica, come se Paul Simon e Vampire Weekend si fossero impegnati giusto un paio di minuti a scrivere un brano insieme. Un piccolo divertimento, nulla di più.
Unica nota davvero positiva è la romantica e toccante “About You”, penultima canzone del disco, che emoziona con sincerità grazie a questo sound che potremmo quasi definire dream-pop: suoni pieni ed evocativi con una coda molto onirica e questo sax che si perde nelle stratificazioni. Finalmente qualcosa di “serio” che esce dal cilindro e non le solite furbate easy pop. Una canzone che pare un atto di coraggio.
Sono riusciti a essere meno pesanti rispetto al precedente lavoro, per il resto, se volete annoiarvi, tra le solite citazioni anni ’80 (e magari fossero sempre i The Blue Nile, che a mio avviso ogni tanto si potrebbero pure intravedere, no è sempre qualcosa di ben più facile), qualche arrangiamento barocco che salta fuori in modo stravagante (ma c’è pure qualcosa di classico, con la capatina nel mondo country/Americana con “When We Are Together” e il violino d’ordinanza) e le ballate soul, il disco è tutto vostro. I 1975 richiamano il Gattopardo: pare che tutto cambi ma non cambia nulla.
Non avevo grandi aspettative e infatti quest’ultime sono state confermate alla grande: The 1975 cercano sempre di essere alternativi ed originali pensando che un bel concept album, con qualche vestito figo, del bianco e nero e atmosfere retrò possano bastare. La strada per diventare originali, e quindi diversi dalla massa che ci circonda, è ancora molto lunga. Ma sembra che a loro, pigri e furbi, non gliene freghi niente.