Volevo provare anche io a ingraziarmi i giovani di oggi con una bella recensione del terzo album di Dominic Richard Harrison aka Yungblud. Almeno queste erano le mie intenzioni iniziali. Poi ho premuto play, mi sono sciroppato questi 36 minuti di pop rock scialbo e plastificato e ho scoperto che qui di salvabile c’è poco o niente. Ma il mio parere conta quel che conta perchè, pur non essendo anziano, ho un animo da boomer incattivito.
Proverò comunque a farvi un quadro generale della situazione – giusto per far conoscere il personaggio in questione ai lettori più attempati. Yungblud è nato venticinque anni fa a Doncaster, in Inghilterra, e da qualche tempo a questa parte viene indicato da prestigiose riviste ed esimi colleghi come il salvatore del rock o l’idolo punk per la Generazione Z. Persino Mick Jagger ne ha parlato bene! Possiamo non fidarci di un grande vecchio come il frontman dei Rolling Stones? Sì, possiamo benissimo non fidarci di Jagger, che recentemente ha elogiato persino Machine Gun Kelly.
Yungblud ha la personalità e il look giusti per sfondare ma, fin quando resterà legato agli aspetti più superficiali e “da copertina” del genere, non riuscirà in alcun modo a impressionare i cultori della buona musica. O meglio, senza spingerci a scomodare la buona musica: del rock radiofonico di qualità , che pure una volta esisteva e oggi sembra essere svanito.
Yungblud ammicca, esagera con le smorfie, storce la bocca e fa di tutto per somigliare un po’ a Billy Idol, un po’ a Johnny Rotten e un po’ ancora a Gary Numan. La sua è una mera operazione commerciale che potrà pure funzionare sui social e colpire i teenager ““ magari immettendoli sulla retta via del rock, il che è sempre cosa gradita – ma di certo lascerà indifferenti tutte le persone di età superiore ai diciotto anni.
Peccato, perchè il disco parte abbastanza bene con la scoppiettante e idoliana “The Funeral”, dove si avverte in maniera evidente il desiderio di Yungblud di collegarsi alle origini britanniche del rock. Le cose però peggiorano rapidamente con “Tissues”, il cui pattern di batteria è stato letteralmente rubato dai Cure di “Close To Me”, e “Memories”, un mid-tempo dai toni malinconici con il non indimenticabile featuring di Willow Smith.
Il resto dell’album si mantiene sempre e costantemente su livelli medio/bassi; è un’overdose di pop rock sintetico, patinato e sovraprodotto così fastidiosamente artificiale da rendere praticamente insignificanti le pur presenti influenze emo, punk e hip hop. Le ballad o semi-ballad sono troppe per un disco così breve (“I Cry 2”, “Sex Not Violence”, “Don’t Go”, “Die For A Night””…) e, tra l’altro, se ne salva solo una, ovvero “Sweet Heroine” ““ un buon pezzo sorprendentemente maturo. Vivamente sconsigliato.