Beh, questa volta Joseph Stevens ci sorprende decisamente. Che non vuol dire che automaticamente ci piaccia, attenzione. Dimenticate i trascorsi sonori, ricchi di rimandi a eroi come Stereolab, Yo La Tengo e shoegaze, no, ora il menù ci offre una specie di soft-rock anni ’70 che pare incrociare gli Stealers Wheel con High Llamas e Bacharach, inserendoli in un contesto che a tratti pare surreale, leggermente sperimentale e onirico, mentre in altri momenti si fa più asciutto e minimale.
Organi a profusione, profumi di bossa nova, qualche ritmica pigra, synth morbidosi ed easy-listening anni ’70. Mah. Che tutto scorra via in modo zuccheroso nessuno lo mette in discussione, che lasci il segno, eh, questo è tutto un altro discorso. Pare musica d’intrattenimento distratto più che adatta a catturare in pieno la nostra attenzione. Poi, certo, forse il ripensare costantemente a cosa proponeva prima la band è sicuramente un male, lo ammetto e faccio davvero fatica a calarmi in questa nuova atmosfera in bilico tra il bucolico e il delicatamente leggero. E’ innegabile notare come certe melodie entrino in circolo (la delicata “Pictionary” o la pimpante “Self-Actualization Centre”), ma 15 brani di sta roba ariosa e impalpabile mi sfiniscono, quando invece, con tutti questi arrangiamenti arrotondati tra flauti, banjo e qualche archetto aggraziato, dovrebbero infondermi serenità .
Il voto basso è giustificato da una ripetitività di fondo che alla lunga si insinua nel disco e per il fatto che certe canzoni paiono più bozzetti che altro o, peggio, esercizi di stile.
C’è un concept dietro all’album: lo stesso Joseph viene fatto fuori dalla band a inizio album e poi nel corso del disco sono narrate le sue peripezie per tornare nel gruppo, cosa che accade nell’ultimo brano. Ecco, ascoltando il disco capisco perchè lo volessero fuori dalla band. Capisco meno perchè lo abbiano ripreso.