Il quarto album dei Kill Your Boyfriend, “Voodoo”, è un incontro con gli spiriti primordiali ed irrequieti del rock’n’roll, i quali coesistono, si sovrappongono e quindi arricchiscono le sonorità elettro-punk di riferimento del duo italiano, permettendo al mondo di sotto, quello dell’oscurità e dell’immaginazione, e a quello di sopra, quello della luce e della realtà , di entrare, in maniera costruttiva, in contatto tra loro.
Queste canzoni sono avvolte da un alone epico, rituale ed invocativo, le pulsazioni elettroniche aprono i cancelli della notte a chiunque cerchi risposte al di là del tempo presente, oltre le sue riproduzioni virtuali dell’esistenza e lontano da quelle ossessioni estetiche, puramente materiali, che influenzano i nostri pensieri e le nostre azioni. L’uomo nero sa di dover compiere un viaggio ostico, ma non vuole più accontentarsi di banali immagini riflesse e copie stereotipate; egli aspira alla verità rivelatrice del sole e alla sua energia, in modo da poterne catturare l’essenza e dare forma, consistenza e sostanza ai suoi talismani sonori intrisi di rock psichedelico, di stratificazioni noise-rock, di cupe trame darkwave e di sfumature shoegaze.
Talismani che porteremo con noi ovunque, in qualsiasi incrocio “Papa Legba” ci porrà dinanzi al peso delle nostre stesse scelte, alle loro promesse e ai loro tributi in termini di sacrificio, perdita e sofferenza. Gli ultimi due brani del disco, infatti, ci attirano in una spirale di sonorità drammatiche, crude e taglienti, le quali, attraversando le nostre anime, danno luogo a riverberi e distorsioni, echi e sussurri, pause ed accelerazioni, atmosfere che sono, allo stesso tempo, intrise di malvagità e di benevolenza, di vita e di morte, di speranza e di rassegnazione, mentre, improvvisamente, quando tutto pareva destinato a finire, ecco che nel cielo notturno, in precedenza assolutamente buio, compare, una luce fulgida e brillante. Essa proviene dalla costellazione del blues, la medesima costellazione dalla quale giunge “The Day The Music Died”, che, però, non è più soltanto un canto funebre, ma si trasforma in una preghiera laica affinchè gli antenati del rock ci accompagnino nel nostro cammino esistenziale, propiziando la caduta di tutti i muri e le barriere che, solitamente, per paura o diffidenza, edifichiamo nelle nostre menti e nei nostri cuori, non solo tra i diversi generi musicali, ma anche tra le persone, senza renderci conto, invece, che noi stessi, con le nostre interazioni reciproche, siamo una fluida ed enigmatica jam-session. Più lenta e profonda, come avviene in “Mr Mojo”, più distorta e estraniante, come avviene in “Buster”, ma sempre intrisa di quella che è la magia voodoo della vita, del cambiamento e della trasformazione.