Ci vuole un po’ ad abituarsi ai ritmi frenetici di una cucina, ai modi bruschi della brigata, alla strana musicalità del trash talking. Io peraltro ci sono passato, a fare insalate e dessert in un’ Amburgeria al sud del Tamigi, e ve lo posso confermare. Non soltanto perchè è lì che è ambientata, i primi episodi di “The Bear” sono come entrare in una cucina per la prima volta: stranianti, bruschi, in apparenza acrimoniosi, ipercinetici, vibranti di un’energia impazzita.
La capacità di portarti dentro un contesto, di farti sentire i suoi odori, palparne la tensione, mediante inquadrature strettissime, camere a mano e zoom spigolosi (il sesto episodio è da questo punto un capolavoro assoluto), è soltanto la prima di una lunga serie di qualità di “The Bear”.
Con la sua essenzialità e la fedeltà ai codici del cinema indie anni ’00, la serie di FX è un capolavoro anche quando elabora il lutto stampato sulle facce dei suoi meravigliosi quanto normali protagonisti. Tutti diversamente disperati, in balia di un disegno caotico, misterioso, in apparenza privo di una ragione compiuta, come un menù ancora in divenire.
Superba la colonna sonora che coccola il nutrito pubblico musicofilo con R.E.M., l’inevitabile, dacchè siamo a Chicago, Sufjan Stevens e Wilco. Per farlo finire tra le lacrime quando sul meraviglioso finale soffrigge “Let Down” dei Radiohead tra cipolle, aglio e pummarola San Marzano.