Ero molto preoccupato per Bruce causa l’effluvio di uscite discografiche che caratterizzarono gli anni “‘2000 troppo qualitativamente altalenanti, nonostante le recensioni quasi sempre entusiastiche concesse quasi per dovere reverenziale o, nei peggiore dei casi, per una sorta di poco velato servilismo da troppi magnanimi recensori.
Rinvigorito dall’ascolto di un capolavoro (nessuna enfatizzazione, perchè di capolavoro si tratta) come “Western Stars” e di un buonissimo disco come “Letter to You“, ero tornato a preoccuparmi delle sue sorti dopo l’ascolto del primo singolo tratto da questo suo nuovo progetto di cover.
La mia diffidenza non derivava dalla volontà di realizzare un intero album di cover, ma scaturiva dalla scelta degli arrangiamenti un po’ troppo patinati di “Do I Love You (Indeed I Do)” che, se pur frizzante, mi faceva temere per una vocalità non convincente e un effetto di tiepido vintage, che mal si addice alla musica “dell’anima”.
Si annidava nella mia mente il pericolo di una appropriazione troppo “bianca” di una musica nata tra il sudore e la polvere di scalcinate baracche ai margini dei quartieri neri ai tempi che furono, facendomi temere che potesse diventare un’operazione gradevole ma troppo simile a certo blues bianco edulcorato o a taluna soul music gradevole ma innocua e spogliata di visceralità come già fecero il Phil Collins di “Buster” o il Rod Stewart di “Soulbook The Greatest Soul Songs”.
Chi conosce bene Springsteen non sarà infatti rimasto per nulla sorpreso dall’opzione di incidere un intero album di cover di musica soul, lasciando da parte chi aveva giurato avrebbe reso invece tributo al rock “‘n’ roll delle origini. La vera sorpresa , in termini entusiasticamente positivi, sta nella scelta del repertorio da omaggiare, tale che risulti oculata, filologicamente pregevole e mai banale.
Sta inoltre nell’aver affrontato non solo la classica sixties ma anche il lambire territori (invero goduriosi nell’anticipare certo funk successivo) del Philadelphia (o “Philly”) sound e nel ripescare gemme del tardo soul dei primi anni’80.
Coloro che frequentano Bruce conoscono la sua proverbiale passione ed approfondita conoscenza della soul music, in primis Motown e Stax e sanno ancor più che la sua carriera collaterale è costellata di brani marcatamente soul non incisi ufficialmente, ma regalati ad altri artisti perchè non ritenuti consoni con gli album che stava realizzando.
Non serve inolte ricordare che l’Asbury Sound del giovane Bruce, ereditato e sviluppato, tra i tanti, dall’amico Southside Johnny e dal primo Little Steven, si fondava proprio sulla fusione di rock e soul; non ultimo il secondo (e bellissimo) album di Springsteen (“The Wild , The Innocent & The E-street Shuffle”del 1973) si abbeverava in abbondanza alla fonte del soul, in commistione a ricordi di Van Morrison e rock seventies.
Se volete ascoltare il Bruce (nascosto) più legato al soul non potrete infine esimervi nel considerare l’album “Dedication” (1981) del suo ripescato eroe degli anni ’60 Gary U.S. Bonds, con metà LP che presentava canzoni composte proprio da Bruce, forti di una tale qualità che ricordano come in quel periodo di irripetibile fertilità compositiva potesse permettersi di regalare brani pregevolissimi (e non solo la celeberrima “Because the Night” di Patti Smith, scritta proprio da lui).
Date inoltre una possibilità a Southside Johnny, nella cui discografia più classica degli anni’70 si annidano gemme nascoste, ossia brani da lui interpretrati ma composti da Bruce o da Little Steven.
Fortunatamente i timori che mi avevano assalito con l’ascolto del primo citato singolo vengono (quasi) del tutto dissipati dall’ascolto dell’album nella sua interezza, che ribalta il giudizio sulla presunta fragile vocalità del nostro e fa rimanere entustiasti nel seguire l’evolversi della scaletta, con brani oggettivamente ab origine eccelsi (si “gioca facile” quindi con una tale sequenza di brani).
Molte luci dunque ma anche qualche ombra che rimane.
Ombre che riguardano in ogni caso la non ottimale scelta di aver affidato in toto gli arrangiamenti e la gestione strumentale al produttore Ron Aiello, quando forse si poteva, considerati i mezzi a disposizione di Bruce ed entorauge, affidare la gestione complessiva del progetto in maniera diversa e meno accentrata.
Gli arrangiamenti infatti se non sono patinati come si temeva, non sono però paragonabili a quel calore che sarebbe stato consono ad un album di soul music, nonostante siano apprezzabili nel rimanere fedeli a quelli originali che, ad onor del vero, spesso non riguardano, come detto, solo la meno levigata soul music anni ’60.
Pensavo fosse una promessa non mantenuta o un’opportunità sprecata ; temevo un’uscita discografica che dovesse, nell’ordine, giustificare un nuovo tour, adempiere ai dovuti obblighi contrattuali e celare l’inaridimento della vena creativa.
Scongiurati questi pericoli, nessun miracolo, nulla di epocale, un lavoro effettivamente non proiettato a rendere attuale Springsteen e la sua musica (ma non è questa nè la sua intenzione nè il suo scopo), ma una meritata promozione per una ascolto gradevolissimo e per l’idea che sta dietro al progetto.
Progetto che in copertina riporta l’indicazione “Vol.1” e che quindi potrebbe far presagire un seguito; c’è chi se ne lamenterà e a buon diritto, ma non sono e sarò tra questi.