Jacob Slater, ex Dead Pretties, è uno di quei musicisti che ha vissuto in fretta e per questo sembra avere molto più degli snelli ventiquattro anni anagraficamente dichiarati. Leader di una band salita agli onori delle cronache nel 2017 e implosa altrettanto rapidamente come purtroppo accade a troppi emuli dei The Libertines, con questo debutto solista a nome Wunderhorse si reinventa spolverando galloni e stimmate duramente guadagnate di un rock che vira verso l’alternative più intenso a forti tinte melodiche.
Musica decisamente introspettiva ma dal piglio estroverso, figlia di una ritrovata sobrietà e di una profonda conoscenza di molti artisti anni sessanta e settanta (d’altronde Slater non ha mai fatto mistero di amare The Who, Neil Young, Joni Mitchell, The Stooges, Van Morrison, Tom Waits ma anche Radiohead, Elliott Smith e John Martyn) influenze che emergono nei trentasette minuti di “Cub”, lodevole tentativo di usare la rabbia in modo positivo ma non autodistruttivo.
Nessun sermone e molta sincerità , caratteristica che ha permesso a Slater di dividere il palco con Sam Fender e Fontaines D.C. grazie a brani tutti chitarre e ritmo come “Leader of the Pack” e “Epilogue” che comunque vengono sapientemente alternati a canzoni viscerali (“Butterflies”) e altre che non disdegnano arrangiamenti orecchiabili al limite del pop (“Purple”). Qualche tocco psichedelico colora “Atlantis”, le burbere melodie di “17” e gli accordi à la Mac DeMarco di “Teal” mostrano un artista in continuo divenire.
Indossa spesso i panni del musicista vissuto e d’esperienza Jacob Slater ma sta ancora scoprendo se stesso come dimostrano l’acida “Poppy” con tanto di wah wah, “Mantis” in odor di Pixies, il groove, il falsetto di “Girl Behind The Glass” e il lato più delicato di “Cub” rappresentato dalle mille sfumature di “Morphine”. Undici brani onestissimi alla fin fine in cui Wunderhorse dimostra che c’è vita anche dopo una gioventù bruciata. Rimarginate le ferite, si può guardare avanti.