Dopo il breve antipasto dell’anno scorso, con l’Ep “The Sky Is Painted Gray Today” a mitigare una discreta attesa, torna con un nuovo album il cantautore islandese Ásgeir Trausti Einarsson, forte di un crescendo unanime di consensi e di qualche endorsement di un certo peso.
Arrivato alla soglia dei trent’anni ha maturato uno stile peculiare che non nasconde determinate influenze e ispirazioni ma che si dipana libero da schemi, sempre alla ricerca di una forma di eleganza musicale, che ben traspare anche (e soprattutto) all’ascolto di queste dieci tracce inedite che compongono “Time On My Hands”.
Scritto in completa solitudine nei giorni segnati dalla pandemia, il Nostro ha voluto trovare conforto in brani intimi e soffusi ma che sapessero disegnare un paesaggio senza limiti, evocando un immaginario in ogni caso inevitabilmente legato alla sua magnifica Terra.
Ásgeir staccandosi dal filone più vicino ai connazionali Sigur Ros (pietra angolare per chiunque si approcci alla musica da quelle parti), già col precedente lavoro, ancora una volta in lingua inglese – che ci pare la soluzione più adeguata ovviamente se si mira a un vasto pubblico – , stava cercando una traiettoria che lo conducesse in quei territori folktronici affini al mondo di Justin Vernon.
Il risultato lascia oltremodo soddisfatti, perchè sin dalla title-track si avverte una sensazione di rassicurazione e di pace interiore, con morbidi tappeti elettronici a condire un brano intenso, pur nella sua scarna struttura musicale fatta di chitarra acustica e ricami pianistici.
La successiva “Borderland” appare più vivace grazie a una ritmica incalzante e al felice intervento degli ottoni, lasciando intendere un legame di parentela con i Radiohead più crepuscolari, e pure in “Snowblind” il cantautore si diverte ad azzardare soluzioni più vibrate aggiungendo elementi funkyeggianti.
La cifra stilistica preferita è comunque quella della ballata, come si evince dalla profonda “Blue”, la melodica “Golden Hour” e la sognante “Limitless”, anche se sono indubbiamente i dettagli a livello di arrangiamenti a fare la differenza e a far risaltare nel contesto di un album molto coeso la bellezza intrinseca di episodi come la trionfale “Giantess” o la suggestiva “Vibration Walls” , per non dire della dolce “Like I Am”, sorta di manifesto autentico dell’intera opera.
Ásgeir, coadiuvato da un armonioso gruppo di musicisti locali a supporto ““ su tutti l’eccellente sezione fiati, composta da Samàºel Jón Samàºelsson al trombone, à“skar Guà°jónsson al sassofono e Kjartan Hákonarson alla tromba – ha compiuto un altro passetto in avanti nella sua piena affermazione come artista pop a tutto tondo, anche se immagino che certi fans della prim’ora lo preferissero prima, quando appariva più sfuggente ed etereo.
In effetti, nel voler trovare un difetto a questo disco, pur non tirando in ballo l’aggettivo “commerciale” (perchè comunque non ci sono canzoni che ammiccano alle radio o che cerchino facili soluzioni sonore) devo ammettere che è forse sin troppo pulito e “perfettino”: ecco, se uno mentre ascolta dovesse attendere un colpo di scena, o quantomeno qualcosa che spiazzi rimarrebbe deluso, ma se siete alla ricerca di un album che vi culli donandovi calore, allora “Time On My Hands” è il titolo che fa per voi.