50. ALESSANDRO FIORI
Mi sono perso nel bosco
[42 Records]
La nostra recensione

Un ritorno intensamente poetico quello di Alessandro Fiori dopo sei anni di silenzio composto e inquieto. Brani che mettono in primo piano le emozioni forti e delicate di chi vive la vita lontano dagli schermi e dalle facili distrazioni, accettando le difficoltà  che si presentano giorno per giorno con schiettezza e una fiducia nell’altro sempre più rara.
(Valentina Natale)

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49. GHOSTLY KISSES
Heaven, Wait
[Akira]
La nostra recensione

Margaux Suavè si è fatta attendere per questo album d’esordio, è vero, ma è riuscita a lasciarci senza fiato, ammaliati dal suo candore, dalla sua voce così eterea e dal suo passo leggero scandito spesso dal piano e talvolta da morbidi synth in odore di folktronica leggera. Suggestioni incantevoli e ipnotiche, in cui un mondo carezzevole nasconde un forte messaggio di speranza e di attenzione a quei piccoli particolari che si caratterizzano poi nelle basi ritmiche e negli arrangiamenti delicati che fanno capolino.
(Riccardo Cavrioli)

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48. BLACK MIDI
Hellfire
[Rough Trade]
La nostra recensione

Ormai senza limiti, i black midi, alla sfrenata ricerca della formula più cervellotica possibile. Giù per la china già  colata dall’ottimo “Cavalcade” (2021), è ancora il progressive d’avanguardia il punto d’abbrivio del loro post-rock avveniristico, se possibile ancor più imprevedibile e stordente dello scorso capitolo. Il batterista Morgan Simpson può essere già  considerato tra i più rivoluzionari di questo primo quarto di secolo. Manca solo un ultimo ingrediente: un “‘classico’ che si faccia ricordare negli anni (“Welcome to Hell”?, “Eat Man Eat”? “Sugar/Tzu”?).
(And Back Crash)

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47. A.A. WILLIAMS
As The Moon Rests
[Bella Union]
La nostra recensione

Un secondo album a cento all’ora, extra large nel sound e nelle intenzioni quello creato da Alex Williams che si trasforma sotto i nostri occhi, mentre prosegue l’ascolto, in una rockeuse aggressiva, volitiva che domina le emozioni e le trasforma in forza, in energia. Metal, folk, echi post rock e tanta adrenalina trasportano la musicista inglese in un’altra dimensione. “Forever Blue” era un bianco e nero d’autore, qui passiamo al technicolor con toni epici e melodrammatici.
(Valentina Natale)

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46. ANNIE HAMILTON
The Future Is Here But It Feels Kinda Like The Past
[PIAS]
La nostra recensione

La partenza di “Providence Portal” con la sua sospensione affascinante e rigogliosa è biglietto da visita suggestivo e più che caratterizzante di quello che andremo a sentire, poi ecco che arrivano in successione tutti pezzi da novanta, capaci di essere melodicamente accattivanti, sempre arrangiati con delle soluzioni piacevolissime e con questo gusto pop che abbraccia derive legermente oniriche, ma nello stesso tempo non perde di vista la forma canzone e la struttura per entrare subito in circolo.
(Riccardo Cavrioli)

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45. THE AFGHAN WHIGS
How Do You Burn?
[BMG]
La nostra recensione

Già  dal kick-start Greg Dulli e soci fanno capire che non si scherza per nulla con gli Afghan Whigs. Pronti, via e si parte già  a mille allora, in stile quasi Queens Of The Stone Age. Poi l’album presenta il clichè più classico delle parrucche afghane, un rollercoaster sonico, fatto di accelerazioni e rallentamenti supermelodici, il tutto in salsa soul, blues e alternative rock. Il sound è sempre piuttosto carico e ricco, cosa piuttosto incredibile per un album registrato e concepito a distanza, con i musicisti disseminati in varie parti degli USA. E anche la voce del Dulli maturo, non sembra aver perso più di tanto lo smalto di un tempo, rimanendo invece, il solito tratto distintivo. Una nota dolceamara finale merita il titolo del disco, scelto, si narra, dall’amico Mark Lanegan successivamente venuto a mancare.
Ineccepibile.
(Bruno De Rivo)

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44. ROSALàA
Motomami
[Columbia]

La pop star che non ci meritiamo ma della quale abbiamo bisogno, Rosalà­a riempie i palazzetti di mezzo mondo senza una concessione all’algoritmo, rivendicando un’integrità  artistica totale, e conquistando fan dall’età , genere e gusti musicali più disparati. Il fatto è che in “Motomami” ogni dettaglio è perfetto, ogni canzone superlativa: dalla bachata di “La Fama”, alla ballata osè di “Hentai”. Da ogni angolo la si guardi, Rosalà­a riesce nell’impresa impossibile di coniugare sperimentazione, accessibilità  e addirittura divertimento. Forse è soltanto molto brava.
(Francesco Negri)

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43. …AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD
XI: Bleed Here Now
[Dine Alone Records]
La nostra recensione

Ventidue tracce, un’ora e un quarto di durata, suono surround quadrifonico. I Trail Of Dead  amano esagerare ma, fin quando continueranno a farlo così bene, è inutile avanzare qualsiasi tipo di lamentela. “XI: Bleed Here Now” è un ottimo esempio di come anche il rock più grandioso e potente (i malvagi lo definirebbero pomposo. possa non solo essere estremamente avvincente, ma anche primeggiare per gusto ed estro. A rendere questo disco esaltante, più che il sound avvolgente e ultra-definito, sono la qualità  della scrittura, la perfezione delle armonie vocali, il feeling tra i musicisti coinvolti e il livello stellare degli arrangiamenti. I marchi di fabbrica del gruppo ci sono tutti: le atmosfere cinematografiche, le orchestrazioni da musical, i ritornelli anthemici da stadio e i crescendo carichi di pathos sono ancora qui e in estremo risalto, a confermare l’ormai assodato formato “kolossal” della band texana. Non ci sono barriere: si viaggia liberi tra le soffici melodie power pop di “Field Song” e la durezza hard/prog rock di “No Confidence”, passando ancora per i cori da ubriaconi della festosa “Salt In Your Eyes” e la raffinatezza art rock di “Millennium Actress” (con Amanda Palmer  ospite alla voce). Ma la canzone più bella è “Contra Mundum”: un piccolo capolavoro a impreziosire ulteriormente un album commovente ed entusiasmante.
(Giuseppe Loris Ienco)

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42. THE DELINES
The Sea Drift
[Decor Records]

Sul gradino più alto del mio podio va un disco, ahimè, scoperto qualche mese dopo la sua uscita, il che mi ha impedito di recensirlo con tutti i crismi in questa sede ma, tant’è, “The Sea Drift”, terza prova discografica dei Delines, gruppo con sede a Portland, nell’Oregon, da allora non mi ha più abbandonato, donandomi una vastissima gamma di sensazioni e forti emozioni ad ogni ascolto. La voce dolce e passionale di Amy Boone, gli eleganti arrangiamenti a discostarli dalla frettolosa etichetta di gruppo country per abbracciare altri contesti musicali (in odor di soul venato d’autore), e i magnifici fiati di Cory Gray che irrompevano gentilmente imprimendo sterzate capaci di riempire l’aria di autentico pathos e calore, hanno contraddistinto l’intera opera marchiandola a fuoco, lasciando un solco profondo nell’anima.
(Gianni Gardon)

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41. JACK WHITE
Fear Of The Dawn
[Third Man Records]
La nostra recensione

Per recensire questo disco basterebbe scrivere delle parole a caso, mescolarle e cercare di dargli un senso compiuto, badando di formulare solo lodi sperticate e applausi a scena aperta. Per dirla in maniera contemporanea usando delle keywords. Ognuno poi la legge come crede ma il contenuto non cambia.
Si perchè cercare di descrivere questo disco significa sminuirlo, erodere la sua quintessenza di creatività . Questa esplosione di fuzz-funk, punk, hard-rock, blues, breakbeats e hip-hop davvero disorienta l’ignaro ascoltatore.
John Anthony Gillis, da Detroit, Michigan, USA ci accompagna in un viaggio attraverso 100 anni di musica, dei quali 60 passati e 40 futuri. Un trip per farci vincere la paura di arrivare all’alba, come recita il titolo parafrasando la “Fear Of The Dark” degli Iron Maiden, rimembrando Rage Against The Machine, Black Sabbath, i Deep Purple, gli Allman Brothers Bands, i Tribe Call Quest (Q-Tip è la guest star dell’album) ed i Kinks.
Il successivo “Entering Heaven Alive” che uscirà  in estate confermerà  la poliedricità  del genio di Detroit, con un secondo album analogico ed acustico contrapposto al primo digitale e sintetico, che saprà  riempire le vostre Lazy Sundays.
Geniale, senza se e senza ma.
(Bruno De Rivo)

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40. MADRUGADA
Chimes At Midnight
[Madrugada Music / Warner]
La nostra recensione

E’ un bel ritorno anche quello dei norvegesi Madrugada, quattordici anni e qualche vita dopo l’ultimo omonimo album. Dodici brani di rock maturo con arrangiamenti sopraffini, un sound caldo e melodioso, ballad dal cuore d’oro e l’affiatamento tra Sivert Høyem, Frode Jacobsen, Jon Lauvland Pettersen, Cato Thomassen, Christer Knutsen fa il resto. Risorgono dalle ceneri romantici, tenebrosi, melodici, pieni di vita e di sogni.
(Valentina Natale)

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39. JENNY HVAL
Classic Objects
[4AD]
La nostra recensione

“Classic Objects” continua il suo intreccio fra personalismi lirici e sviluppo musicale, binomio che le viene bene, evidentemente anche meglio in questo tempo di riflessioni forzate, dove in effetti il suo interesse si pone al solito nell’eterno rapporto fra artista e lo scorrere del tempo, fra dimensione creativa e contesto immanente.
(Gianni Merlin)

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38. SPIRITUALIZED
Everything was beautiful
[Bella Union]
La nostra recensione

Un ulteriore viaggio orchestrale dentro il vellutato romanticismo di Mr. Jason Pierce, ancora una volta alla prova dei fatti con i propri idoli mai nascosti (Stones, Iggy), in 7 brani che distillano dal travolgente inizio fino all’ultima nota di un soul intriso di gospel, pasticche senza scadenza di feeling inevitabile, un amore incondizionato e a prima vista verso la migliore musica, per palati che non ne hanno mai avuto abbastanza. Long life Spiritualized.
(Gianni Merlin)

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37. SPOON
Lucifer On The Sofa
[Matador]
La nostra recensione

Con questa decima prova sulla lunga distanza, la compagine statunitense guidata da Britt Daniel fa centro ancora una volta. E diciamolo, non è una novità . Grande band gli Spoon e super questo record di dieci tracce che in apertura ci delizia con “Held”, una bellissima cover di Bill Callahan. Il resto dell’album prosegue con una serie di brani dal sapore di classico indie-rock senza sbavature.
(Alessandro Tartarino)

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36. CATERINA BARBIERI
Spirit Exit
[light-years]

Una musica mistica, poetica o addirittura fantascientifica che, mentre la si ascolta suggerisce la possibilità  di mondi infiniti, sia dentro che fuori la nostra mente. Musica che si accorda bene con un ascolto notturno sotto ad un cielo stellato. Allo stesso tempo, dal muro di sintetizzatori modulari che dominano l’elettronica di  Caterina Barbieri fuoriesce una ricerca costante della melodia che strega l’ascoltatore.
(Giovanni Davoli)

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35. MOIN
Paste
[AD93]

I Moin raddoppiano in un paio di anni come una forgiatura da continuare a stretto giro per una superiore rappresentazione per niente statica del background musicale del trio, forse con una maggiore sensibilità  dub della nostra Magaletti; un album se possibile ancora più conciso del precedente, che non dà  solo la perfetta ambientazione ad un post punk moderno, ma che sfida ulteriormente il classicismo della costruzione a traino chitarristico con un persistente uso del campionamento vocale, nel tentativo di nuovo riuscito di plasmare un corpus sonoro del tutto originale.
(Gianni Merlin)

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34. WORKING’S MEN CLUB
Fear Fear
[Heavinly Recordings]
La nostra recensione

Danze sintetiche per androidi impauriti

La riconferma del “club” britannico, affascinato dalle ansie della crisi moderna e dalla wave più elettronica
(Luca Morello)

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33. WET LEG
Wet Leg
[Domino]
La nostra recensione

Un disco che potrebbe essere il colpo di grazia definitivo alla nostra salute mentale, ma anche la rottura del cerchio nel quale ci siamo fatti abbindolare ed intrappolare. Chi può dirlo? Raffiche di disperazione, abissi di nevrotico romanticismo, prigioni di solitudine e anfratti di oscura depressione possono manifestarsi, in qualsiasi momento, sul nostro cammino; saremo abbastanza svegli da riconoscerli oppure è meglio essere incoscienti e passare oltre?  Chissà  se queste canzoni potranno essere parte della cura o saranno solamente una delle fasi della nostra malattia, qualcosa che confonde i nostri cuori ansiosi e disaffezionati e li incastra in un sogno mellifluo che non fa altro che ripetere i suoi luminosi eccessi. Alienazione? Certo, ma è un’alienazione gratificante, perfettamente incastonata tra l’epopea bowiana e una chiassosa festa new-wave che non finisce mai.
(Michele Brigante Sanseverino)

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32. ALMAMEGRETTA
Senghe
[The Saifam Group]
La nostra recensione

what is wrong make it right

Lo scintillante ritorno della band napoletana che affonda le sue radici in tutte le controverse suburbia del mondo.
(Luca Morello)

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31. C’MON TIGRE
Scenario
[Intersuoni]
La nostra recensione

I C’mon Tigre hanno una serie di qualità  che li rende unici, la prima sicuramente che sono una delle poche band italiane con un reale valore internazionale che si realizza nel sound e nella scelta dei collaboratori, attraverso loro la musica diventa anche espressione grafica, una capacità  di colpire nel segno davvero sorprendente.
Riconoscimenti che non tardano ad arrivare, recentemente hanno vinto il premio come miglior video musicale per “Twist Into Any Shape” al the London International Animation Festival 2022, superando rivali come The Smile, Fleet Foxes, Gorillaz, Animal Collective e Mogwai.
“Scenario” è un lavoro fantastico e incredibile, a partire dalla copertina fino all’ultima nota.
(Fabrizio Siliquini)

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30. SORRY
Anywhere But Here
[Domino]
La nostra recensione

Giuro che non me lo aspettavo, il loro esordio mi era piaciuto parecchio ed era finito nella mia vecchia top ten, ma che fossero capaci di realizzare un album così bello è stata una vera sorpresa.
“Anywhere But Here” non è solo un insieme di brani riusciti, è anche un album musicalmente omogeneo con arrangiamenti e una registrazione particolare che gli danno un tocco di originalità  e spontaneità , quasi fosse stato registrato in presa diretta.
Piccolo capolavoro che apre nuovi scenari, i Sorry non sembrano ormai più un duo ma suonano come una delle più grandi band indie, da tenere sotto costante osservazione.
(Fabrizio Siliquini)

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29. KNIFEPLAY
Animal Drowning
[Topshelf]
La nostra recensione

Capaci di unire le trame sofferte e slowcore dei Red House Painters a esplosioni shoegaze catartiche e totalizzanti, i Knifeplay ci accompagnano in un mondo oscuro, ricco di ombre e tensioni emotive, eppure sono sempre capaci di infondere un senso di rassicurazione su di noi: la loro musica è un abbraccio, capace di essere evocativa, rumorosa e nello stesso tempo quasi rurale. Gli anni ’90 nella loro forma sicuramente rumorosa, ma senza dimenticare quasi un animo folk, dal quale attingere per scacciare le paure e sentire la melodia scorrerci nel cuore.
(Riccardo Cavrioli)

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28. BETH ORTON
Weather Alive
[Partisan]
La nostra recensione

Beth Orton ha saputo scacciare i demoni e quello che ci viene trasmesso attraverso queste otto tracce è il desiderio di trarre linfa dalla nuova condizione di donna “libera” da ogni condizionamento, anche di mostrare le proprie debolezze e i propri vuoti esistenziali…”Weather Alive” è un album privo di punti deboli, un’esperienza da assaporare pian piano, i cui ascolti ripetuti saranno necessari per cogliere al meglio tutte le sfumature del suono e i tanti piccoli dettagli dei quali è composto.
(Gianni Gardon)

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27. BIG JOANIE
Back Home
[Daydream Library/Kill Rock Stars]
La nostra recensione

Le Big Joanie, formatesi a Londra, sono pronte a conquistare le charts internazionali con un album senza apparenti punti deboli, dove la materia rock viene maneggiata con cura e perizia. Stephanie Phillips, Chardine Taylor-Stone ed Estella Adeyer sanno essere intense e viscerali, dolci e raffinate allo stesso tempo, dosando al meglio la loro vigorosa energia senza scordare mai l’elemento melodico.
(Gianni Gardon)

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26. THE HAUNTED YOUTH
Dawn on the freak
[Mayway]
La nostra recensione

Uscito poche settimane fa questo incredibile esordio degli Haunted Youth, band belga trainata da Joachim Liebens. Dream pop e shoegaze segnano il leitmotiv dell’intero disco dove echeggiano perle straordinarie come “Gone” e “Shadows” ma dove i risvolti “poppy” di “Teen Rebel” o “Coming Home” imprimono certezza sulla bellezza di questo sognante e ammaliante album.
(Alessandro Tartarino)

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25. ALT-J
The Dream
[Infectious Music]
La nostra recensione

Il loro ultimo album,  “Relaxer“, aveva decisamente diviso i fan degli Alt-J, tra chi lo ha ritenuto una degna consacrazione della carriera della band e chi lo ha definito il peggior disco del trio: persino il gruppo non è mai sembrato troppo fiero di questo lavoro, affermando di averlo concluso in preda alla fretta e alla mancanza di idee. Qualsiasi sia la vostra opinione su  “Relaxer” possiamo dire che “The Dream” ha alzato le aspettative di tutte: è una serie di montagne russe, non sai mai cosa aspettarti dalle tracce che stai ascoltando e ti coinvolge senza neanche che tu te ne accorga. La punta di diamante? Decisamente “Chicago”.
(Dimitra Gurduiala)

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24. ARCADE FIRE
We
[Columbia Records]
La nostra recensione

Una band come gli Arcade Fire è indiscutibilmente a livelli alti. E anche se al loro frontman è capitato di dover passare da spiacevoli inconvenienti mediatici (ben giustificati) non possiamo non considerare questo album come uno dei più attesi dell’anno e, di nuovo indiscutibilmente, un ottimo lavoro di gruppo, perchè sì non possiamo non ascoltare più i canadesi solo per una cazzata del frontman. Smettiamola di fare gli ipocriti, dai.
(Gianluca Quadri)

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23. PAOLO NUTINI
Last Night In The Bittersweet
[Atlantic]
La nostra recensione

Un album imponente, ricco di contenuti e rimandi, di suggestioni e solide realtà , e che dal punto di vista musicale ed estetico/culturale va ad ampliare ulteriormente la tavolozza dei colori sin qui da lui utilizzata. E’ un lavoro certamente eterogeneo ma che nell’esserlo finisce per definirci con esattezza lo stato attuale del suo titolare, perennemente proteso a muoversi e indagare se stesso, esplorando tutte le vie musicali per veicolarci le sue canzoni e il proprio mondo interiore. Un disco per nulla patinato dove la sostanza è anteposta alla forma.
(Gianni Gardon)

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22. MITSKI
Laurel Hell
[Dead Oceans]
La nostra recensione

“Laurel Hell” (letteralmente “inferno di alloro”. è un termine che proviene da una zona nel sud degli Stati Uniti, dove i cespugli di alloro crescono e si estendono in boscaglie così fitte che chiunque vi entri non può più uscirne. I fiori di alloro, tuttavia, sono piccoli, delicati e terribilmente belli: morire tra fiori così belli è quasi un privilegio. Allo stesso modo, riconoscere e condividere la propria sofferenza attraverso il nuovo album di Mitski è quasi terapeutico. è un disco di rassicurante rassegnazione, che inizia con un attento passo nell’oscurità  in “Valentine, Texas” e termina con la caotica celebrazione della nostalgia della protagonista in “That’s Our Lamp”. Dopo cinque album Mitski continua davvero a stupire, non c’è che dire.
(Dimitra Gurduiala)

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21. FLORENCE + THE MACHINE  
Dance Fever
[Polydor Records]
La nostra recensione

Se c’è una cosa che si è capita di Florence Welch dall’inizio della sua carriera musicale, è che è indomata e indomabile, un vero e proprio spirito libero. Questa volta, questo spirito si è concesso a una danza sfrenata, come una partecipante dei rituali di Bacco, o come una strega in procinto di compiere incantesimi intorno al fuoco.  “Dance Fever” è un album che sia nell’estetica sia in alcuni pezzi strizza l’occhio a “Lungs”,  in un’ottica però più dark e potente: è l’invito a una danza che coinvolge artista e ascoltatore fino alla morte, a cui però non si riesce davvero a rifiutare.
(Dimitra Gurduiala)

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20. STROMAE
Multitude
[Mosaert Label]
La nostra recensione

Il ritorno di Paul Van Haver è la sorpresa dell’anno, non tanto perchè avessi dubbi sul valore dell’artista ma semplicemente perchè   con “Multitude”   ha superato ogni più rosea aspettativa.
Album intenso,sincero e musicalmente affascinante che tocca momenti commoventi unici, capaci di entrare nel profondo personale “L’Enfer” o nella tematica sociale “Santè” con chirurgiche sanguinanti incisioni che non lasciano indifferenti.
(Fabrizio Siliquini)

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19. KENDRICK LAMAR
Mr.Morale & the Big Steppers
[pgLang/Top Dawg/Aftermath/Interscope]
La nostra recensione

E alla fine il migliore è tornato. Dopo cinque anni di inattività  dal leggendario “DAMN.”, Kendrick Lamar è tornato con il suo quinto album in studio chiamato “Mr.Morale & the Big Steppers”. Un album complesso e difficile da descrivere, ma dove le parole per Kendrick Lamar escono con una facilità  disarmante. Non c’è nessuno nel panorama hip hop che al momento sappia usare il lessico come lui. Non c’è nessuno che al momento sappia descrivere bene la realtà  esteriore e interiore come lui.
(Lorenzo Allamprese)

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18. KAE TEMPEST
The Line Is A Curve
[Fiction Records]
La nostra recensione

Non esiste un’unica direzione, un unico modello di riferimento o un’unica teoria che debba avere, necessariamente, la precedenza sulle altre; il rap, un incisivo riff di chitarra, la linea ritmica di un synth, una melodia verbale, l’urgente bisogno di far sentire la propria voce, ci mostrano come, in realtà , tra due punti, non esiste un’unica linea retta, ma un insieme assolutamente caleidoscopico, stimolante, sbalorditivo di trame umane che si muovono attraverso i nostri sensi, i nostri umori e i nostri sogni. Esse cambiano e si trasformano di continuo, unendo universi che pensavamo essere totalmente disgiunti gli uni dagli altri. Ma, invece, è bastata una semplice parola, il verso di una canzone, la rima di una poesia, per dimostrarci che, ogni qual volta riusciamo a liberarci di ciò che ci portiamo, dolorosamente, dentro, diventiamo sì più fragili, ma, allo stesso tempo, ci rendiamo conto di quanto siamo simili.
(Michele Brigante Sanseverino)

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17. ANGEL OLSEN
Big Time
[Jagjaguwar]
La nostra recensione

Un deciso capolavoro per la cantautrice del Missouri che ha ritrovato le influenze country-folk a lei tanto care archiviate, almeno per ora, le note synth-pop del precedente lavoro. “Big Time” è un disco profondo, intenso, difficilmente dimenticabile dove le melodie della Olsen trovano conforto nelle sue storie personali (lutto e coming out). Lasciarsi trasportare dalle note eteree di “Ghost on”, “All the Good Times” o “Dream Thing”, solo per citarne alcune, diventa un’esperienza totale.
(Alessandro Tartarino)

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16. MAKAYA McCRAVEN
In These Times
[International Anthem]

In questo disco c’è la visione di una musica che, pur rimanendo ben ancorata ai grandi del passato, guarda avanti, accompagnandosi a un progresso e a una interculturalità  globale entrambi innegabili. Il risultato è un disco che non stufa mai, conciso quanto basta (41 minuti divisi su 11 tracce) per volerlo riascoltare in loop, sorprendendosi ad ogni ascolto di un dettaglio sfuggito in precedenza. Oltre il jazz, la world music, la fusion, l’hip-hop o qualunque altro genere, c’è Makaya McCraven con i suoi sodali della benemerita International Anthem Recording Co. (Angel Bat David, Alabaster DePlume, Jaimie Branch RIP, Ben Lamar Gay, ecc”…), che guida da qualche anno un movimento sempre più diffuso e che passerà  certamente alla storia.
(Giovanni Davoli)

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15. RUBY HAUNT
Cures For Opposites
[Autoproduzione]
La nostra recensione

I Ruby Haunt si muovono alla perfezione nei toni bassi, quelli che ci lasciano con la pelle d’oca, toccando emozioni, nervi scoperti, le suggestioni del cuore che ci costringono a stare svegli la notte perchè la testa e il cuore vanno all’unisono. Andamenti morbidi, circolari che ci ipnotizzano, ci catturano e non ne possiamo fare a meno, sopratutto nei primi tre brani, usciti come singoli. Poi nella seconda parte del disco il suono è più scarno, basato sui synth, gli anni ’80 un fantasma che aleggia, ma che non ci disturba.
(Riccardo Cavrioli)

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14. NILàœFER YANYA
Painless
[ATO Records]
La nostra recensione

Le dodici tracce di “Painless”, seppur contraddistinte da un sound più diretto e scarno rispetto a quello delle pubblicazioni precedenti, rappresentano un’evoluzione importante per quanto riguarda lo stile di Nilà¼fer Yanya, cantautrice britannica che, nonostante la giovane età , sembra ormai pronta al definitivo salto di qualità . Il disco è da considerarsi un tuffo nelle emozioni e nelle vulnerabilità  di una ragazza di poco più di vent’anni che, con un piede nel pop e l’altro nel rock, lascia ampio spazio alle melodie più malinconiche e raffinate, con inserti elettronici e un certo languore in salsa “’90s a fare da contorno.
(Giuseppe Loris Ienco)

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13. BILL CALLAHAN
Ytilaer
[Drag City]
La nostra recensione

Il percorso discografico di Callahan può essere paragonato probabilmente solo a quello del prolifico Mark Kozelek, con risultati ben più costanti rispetto all’ex Red House Painters questo va detto. Resta fedele a se stesso l’artista un tempo noto come Smog e sembra già  di vederlo intonare “Partition”, “Naked Souls” o “Drainface” con un piccolo sorriso sornione. E’ musica per cuori solitari quella di “Reality”, una realtà  poco appariscente ma ricca di significati da interpretare come le mille domande suscitate da “Last One At The Party” su cui i molti fan del nostro già  s’interrogano. Cerca le cose semplici della vita Bill Callahan, lo sguardo è quello mai cinico e un po’ sorpreso di chi la sa lunga ma non si rassegna in uno dei dischi più corali della sua carriera.
(Valentina Natale)

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12. BEACH HOUSE
Once Twice Melody
[Sub Pop]
La nostra recensione

Ed ecco il compendio definitivo di una delle band che hanno marchiato a ferro e fuoco l’ultimo quindicennio di storia del rock. “Once Twice Melody”, centellinato a puntate, è una specie di antologia dell’arte di Scally e Legrand, quasi alla pari del dittico che li elevò nell’Olimpo del genere – sì, sto parlando dell’accoppiata “Teen Dream” (2010) / “Bloom” (2012). “Superstar” potrebbe essere il loro capolavoro. Forse troppo lungo, ma, parlando dei Beach House, questa è solo una buona notizia.
(And Back Crash)

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11. BIG THIEF
Dragon New Warm Mountain I Believe In You
[4AD]
La nostra recensione

Dopo alcune prove discrete, i Big Thief si elevano decisamente al di sopra della media dei gruppi indie-folk loro coevi, con un mastodonte di 80 minuti che raccoglie flussi e suggestioni ad ampio spettro, arrivando a lambire anche l’alternative rock anni ’90. Degna menzione per la spettrale title track, ma irraggiungibile è la sensazionale “Simulation Swarm”, umile e toccante canzone d’amore, cullata da un basso slide basculante che la proietta tra le più incantevoli intuizioni armoniche del decennio.
(And Back Crash)

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10. YARD ACT
The Overload
[Island Records]
La nostra recensione

E’ evidente che le democrazie occidentali sono in affanno, continuano a vendere sogni effimeri, mentre politici narcisisti e bugiardi pensano solo a difendere il proprio potere personale, a garantire vantaggi materiali a sè stessi e alla loro ristretta cerchia di amici e amici degli amici, fregandosene del prossimo e alimentando quei venti di odio, egoismo, intolleranza e ignoranza che diffonderanno, per il mondo, i semi del sovranismo, del nazionalismo e del complottismo, convincendo le persone che stanno meglio, che sono più felici, che sono più sicure, che sono più serene, se vivono sole e isolate, se votano per la Brexit, se rinunciano a esprimere il proprio dissenso, se disertano le urne, affidandosi all’ennesimo governo di emergenza nazionale, all’ennesimo governo dei migliori, all’ennesimo governo dei responsabili e all’ennesimo leader scelto dalla casta.
(Michele Brigante Sanseverino)

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9. TRENTEMà’LLER
Memoria
[In My Room]
La nostra recensione

Ancora non me ne capacito di come possa avermi catturato in questa maniera un disco così impalpabile, etereo, sospeso tra mille miglia di vuoto. Tra lo shoegaze ed il dream pop, tra new wave e industrial techno. Non riuscivo a tagliere questo doppio vinile dai giradischi, avanti indietro, lato A, B, C e D senza tregua. Poi esci di casa, sali in macchina e vai di streaming. Ma perchè?
E’ la sintesi dei miei ascolti degli ultimi dieci anni in un solo album, dalla mia passione per gli Slowdive al trasporto per Apparat / Moderat. Da Burial a Four Tet, da Sigur Ros a Mogwai, da Sonic Boom a Panda Bear.
Con la vocalist Lisbet Fritze a supporto dell’artista compositore danese, a dare un appiglio terreno a questo space trip.
Un viaggio all’interno del nostro corpo (bellissima la copertina come radiografie sovrapposte delle nostre mani), delle nostre reminescenze e appunto la Memoria.
Sorprendente.
(Bruno De Rivo)

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8. DRY CLEANING
Stumpwork
[4AD]
La nostra recensione

Lo spoken word di Florence Shaw vive in un universo parallelo nel quale gli Smiths stanno ancora assieme, i nostri animali domestici non si sono mai smarriti e vivono felicemente con noi e la deriva capitalistica non ha preso il controllo delle nostre vite, obbligandoci ad affannarci per acquistare qualcosa che, tra un po’, passerà  di moda. Perchè è questo quello che fanno: costruiscono miti ed eroi, ce li vendono e poi li rendono inutili, ingombranti, dannosi, sciocchi, superati, in maniera tale da farcene desiderare altri, i quali, ovviamente, sono già  lì, sugli scaffali dei loro negozi, pronti ad amarci, a farci le feste quando torniamo a casa la sera, a seguirci ovunque andiamo. Pop-punk, gothic rock, new-wave, slowcore, non importa di cosa stiamo parlando. Loro ci amano.
(Michele Brigante Sanseverino)

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7. ARCTIC MONKEYS
The Car
[Domino Records]
La nostra recensione

Gli Arctic Monkeys hanno lasciato la luna, dove hanno azzerato tutto e ricominciato, e sono tornati sul terra, allora se “Tranquility Base Hotel & Casino” era il loro album d’esordio, in questo loro secondo lavoro si tolgono di dosso la polvere e quella sensazione gelida che la solitudine lunare ti lascia addosso per avvolgere maggiormente l’ascoltatore con una ricerca melodica più immediata.
“The Car” è stato un album divisivo, chi lo ha amato e chi non lo sopporta proprio, per quanto mi riguarda è una ulteriore crescita per gli Arctic Monkeys, anche in questo momento che sta suonando nella mia stanza mentre scrivo queste righe continuo a trovarlo assolutamente delizioso.
(Fabrizio Siliquini)

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6. ALVVAYS
Blue Rev
[Polyvinyl]
La nostra recensione

Per buona parte dell’album si percepisce un senso di libertà , divertimento e smodatezza.
A differenza di alcuni brani passati del complesso canadese, quelli di “Blue Rev” non amano ripetersi in strofe e ritornelli ben impostati; preferiscono contraddirsi, contrastarsi, sorprendere e cercare sempre qualcosa di nuovo da far emergere.
(Federico Tricarico)

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5. SUEDE
Autofiction
[BMG]
La nostra recensione

La perfetta operazione nostalgia.
Definirei così il ritorno degli Suede, che sale sul podio del 2022 cancellando di fatto 30 anni di storia, come se dopo “Animal Nitrate” fosse uscito “She Still Leads Me On”, primo singolo del disco della rinascita. C’è infatti la stessa energia esplosiva degli esordi di quella band che sembrava gli Smiths con l’eleganza dei Roxy Music e la faccia di ca*** dei Sex Pistols. Ascoltate “Personality Disorder” oppure “Shadow Self” per farvi un’idea di questa ritrovata energia.
Non mancano incursioni in territori dark tipo “Black Ice” o “Turn Of Your Brain And Yell” in salsa Cure oppure ballate “What am I Without You” a suggellare ancora una volta la capacità  di cambiare velocità  e livello di emozioni.
Chi si aspettava che gli Suede esplorassero nuovi territori o si infilassero nel filone di quelli che inseriscono l’elettronica perchè con “l’elettrica” non sanno più cosa dire rimarrà  deluso.
I più agè invece ritroveranno in questo disco la propria comfort zone quasi intatta, come se il tempo non fosse mai passato. E naufragar gli sarà  dolce in questo mare.
Gustabile.
(Bruno De Rivo)

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4. BLACK COUNTRY, NEW ROAD
Ants From Up There
[Ninja Tune]
La nostra recensione

La verità  è che non mi aspettavo un capolavoro dai Black Country, New Road, e mi sbagliavo. Sapevamo che il collettivo inglese era maestro nel realizzare maestosi castelli di carte, rutilanti improvvisazioni klezmer, ma un album capace di farti piangere, ridere, sprofondare e risorgere? Dal primo ascolto è stato chiaro che qui c’erano tutti gli ingredienti di una pietra miliare, ancora prima del drammatico annuncio di Isaac Wood di aver lasciato la band una settimana prima dell’uscita del disco. C’è un intero universo dentro a queste dieci canzoni, personaggi che ritornano, allusioni misteriose e tumulti interiori fin troppo chiari. Come in una palla di vetro con la neve, la metafora usata da Wood in “Snow Globes”, Ants From Up There costruisce un mondo in miniatura e ci invita a guardarlo sempre più da vicino, fino a che non ne diventiamo parte, e la magia si compie.
(Francesco Negri)

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3. KING HANNAH
I’m Not Sorry, I Was Just Being Me
[City Slang]
La nostra recensione

L’esordio più convincente e allo stesso tempo forse l’album fra i più ispirati in circolazione, mischia in modo sorprendentemente vivo atmosfere intoccabili finora dei tardi Portishead con un blues caldo e lento, dove l’intrigante voce di Hannah Merrick, il ritmo lento e le languide code di queste canzoni concorrono a condurci dentro il miglior rock americano degli anni 90, intriso di cupezza e l’espiazione della ricerca del mistero.
(Gianni Merlin)

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2. FONTAINES D.C.
Skinty Fia
[Partisan]
La nostra recensione

Una celebrazione della cultura irlandese, del sacrosanto legame tra uomo e natura e una preziosa testimonianza dei danni invisibili portati dalla gentrificazione – il tutto in una deliziosa salsa post-punk con influenze che spaziano dai  Nine Inch Nails  ai Cure. Potevamo chiedere di meglio, da una delle band più innovative e interessanti degli ultimi tempi? Assolutamente no. Cerchiamo di mantenere basse aspettative, ma visti i dischi che finora i  Fontaines D.C.  ci hanno offerto, è davvero difficile non farlo. Disco definitivo dell’anno.
(Dimitra Gurduiala)

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1. THE SMILE
A Light for Attracting Attention
[Self Help Tapes]
La nostra recensione

Un nuovo capitolo verso la strada dell’immortalità  artistica , pur non inventando nulla tra recupero del loro passato (Radiohead) ed interpretazione del presente.
(Corrado Frasca)

Il sorriso di un falso profeta, il sorriso di un bugiardo, il sorriso di un pagliaccio, il sorriso di un ingannatore, il sorriso di un predatore che, sfruttando o meglio ancora nascondendosi dietro la scienza e la tecnologia, tenta di piegare il mondo intero alla sua volontà , obbligando le persone comuni ad essere al servizio di uno stato, di una società , di un’ideologia economica, di una morale, di un insieme di norme e di leggi pregiudiziali, le quali diventano sempre più disumane, più abominevoli, più assurde, più ostinate, più bramose di invadere la nostra intimità . Un modo violento di concepire la politica, del quale l’Italia, purtroppo, è divenuta un triste, ottuso, malsano e moribondo esempio. A tutto ciò gli Smile contrappongono una bellezza rarefatta, fragile e traballante, la voglia di evadere dalla prigione di passività  nella quale veniamo, quotidianamente, umiliati, considerati alla stregua di bambini che non sono in grado di scegliere e di decidere il proprio bene.
(Michele Brigante Sanseverino)

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Grafica: Luca Morello