#10. ALMAMEGRETTA
Senghe
[The Saifam Group]
La nostra recensione
Difficile classificare l’ultimo album degli Almamegretta nella musica italiana, passato inspiegabilmente in sordina. Il sound, infatti, è il solito crocevia tra dub, roots reggae, elettronica d’ambiente con la tipica melodicità napoletana, di ampio respiro internazionale, che non stonerebbe nelle playlist coi Massive Attack, Tricky, Jah Whobble e similari. Raiz (tornato in pianta stabile) e soci invece di fare il compitino ed aggiungere semplicemente un nuovo disco, hanno voluto scrivere un nuovo capitolo aggiungendo nuove trame e sviluppando le sonorità anche verso territori danzerecci e dubstep (“Ben Adam”, “Make it Work”) aggiungendo qua e la il cantato in inglese, cosa non nuova per l’anima migrante della band. Così facendo hanno abbattuto vari muri scavando delle profonde crepe negli stessi, che è anche il significato di “Senghe” in dialetto napoletano. Prezioso il contributo di Paolo Baldini, bassista e producer, che ha dato ulteriore profondità ad un suono già molto scavato verso il basso.
9. PIXIES
Doggerel
[ThBMG]
La nostra recensione
Se ci si aspetta una replica dei primi quattro dischi dei folletti di Boston o qualcosa di vicino alle esplosioni di “Doolittle” o “Surfer Rosa” si rimarrà delusi. Ma chiudendo gli occhi questo maturo alt-rock con sfumature western morriconiane, surfer-rock beachboyssiane e proto-grunge cattura davvero.
L’innesto di Paz Lenchantin è definitivamente riuscito senza crisi di rigetto, al punto da sembrare il clone di Kim Deal come backing vocalist e linee di basso essenziali. Per il resto Frank Black è ancora ispirato come songwriter e Joe Santiago sa ancora infiammare la sua Gibson Les Paul come ai vecchi tempi.
La pesante eredità della prima vita dei Pixies la si ritrova come essenze spruzzate qua e là nel disco, con il pregio che invece di scimmiottare il passato, valorizzano il presente e gli danno solidità sonica e concettuale.
Ben fatto.
8. SPOON
Lucifer On The Sofa
[Matador]
La nostra recensione
La band texana giunge con questo “Lucifer On A Sofa” al decimo disco, ma è tutt’altro che in fase calante. Il loro sound è il più classico alternative rock contemporaneo, che cattura ad ogni giro di vinile. A tratti spoglio e scarno psych-rock, a volte quasi brit-pop, a volte funkeggiante finisce per piacere senza troppa fatica o passate di giradischi fronte e retro.
Anche la timbrica vocale di Britt Daniel merita una menzione, ruvida e delicata al tempo stesso, sa avvolgersi perfettamente sui riff di chitarra e la ritmica incalzante, cogliendo sfumature sempre diverse.
Infine la produzione di Mark Rankin, già all’opera con i Queens Of The Stone Age, dona all’album ampia godibilità senza rinunciare all’impatto sonoro.
Equlibrato.
7. YARD ACT
The Overload
[Zen F.C. / Island]
La nostra recensione
Di tutte le band di quello che viene denominato oggigiorno il post-punk (a mio avviso sarebbe più corretto chiamarlo new-post-punk) Yard Act da Leeds, UK, sono quelli che invece più si avvicinano alle sonorità originarie di band quali XTC, Gang of Four oppure The Fall. Anche il modo di cantare di James Smith, ricorda lo sprechgesang dell’altro omonimo Mark E, con tematiche taglienti e irriverenti, contro le politiche britanniche contemporanee, il classismo e sessismo, uno spaccato di contemporaneità made in the UK.
Il tutto adagiato su di un sound piuttosto crudo e minimalista, che suona demo ed essenziale ma che cattura immediatamente l’attenzione. I brani sembrano sempre sull’orlo dell’esplosione ma poi si ricompongono e si concludono.
Perfino al copertina iconica e immediatamente riconoscibile rende il disco eccentrico sotto tutti i punti di vista.
Essenziale
6. THE AFGHAN WHIGS
How Do You Burn?
[BMG]
La nostra recensione
Già dal kick-start Greg Dulli e soci fanno capire che non si scherza per nulla con gli Afghan Whigs. Pronti, via e si parte già a mille all’ora, in stile quasi Queens Of The Stone Age. Poi l’album presenta il clichè più classico dei liberali afghani, un rollercoaster sonico, fatto di accelerazioni e rallentamenti supermelodici, il tutto in salsa soul, blues e alternative rock. Il sound è sempre piuttosto carico e ricco, cosa piuttosto incredibile per un album registrato e concepito a distanza, con i musicisti disseminati in varie parti degli USA. E anche la voce del Dulli maturo, non sembra aver perso più di tanto lo smalto di un tempo, rimanendo invece, il solito tratto distintivo. Una nota dolceamara finale merita il titolo del disco, scelto, si narra, dall’amico Mark Lanegan successivamente venuto a mancare.
Ineccepibile.
5. FONTAINES D.C.
Skinty Fia
[Partisan]
La nostra recensione
Ho letto lodi sperticate di questo album dei Fontaines D.C., da Dublino, Irlanda, da molti definito l’album dell’anno appena uscito, la scorsa primavera. Ma davvero?
Beh, è innegabile che il ritmo del disco, il sound più smussato e di ampio respiro ma pur sempre post-post-punk, è di quelli che ti vanno dritti al cuore e non si schiodano più. Album concepito e scritto in Inghilterra, con una certa saudade verso la patria da parte del quartetto irlandese, che usa la propria madre lingua in alcune occasioni, quasi a sancire la loro origine da “espat” nella terra di Albione. A cominciare dal titolo del disco, la dannazione del cervo, che è la traduzione letterale dal gaelico, con il significato di non fermare la rinascita, il ritorno alla vita, post-pandemica.
Di fatto i Fontaines D.C. con questo disco non assomigliano più a nessuno, acquistano una loro dimensione: hanno un loro sound secco, asciutto e deciso, una loro traccia vocale di Grain Chatten che non fa nulla per nascondere il suo marcato accento da “Dubliners“, tratti distintivi definitivi.
Ma non sopravvalutiamoli.
4. YEAH YEAH YEAHS
Cool It Down
[Secretly Canadian]
La nostra recensione
Lo dico da sempre, il talento vocale di Karen O renderebbe rock and roll classics anche le filastrocche per i bambini.
Tra i grandi ritorni del 2022 non potevano mancare gli Yeah Yeah Yeahs, da New York City, USA, con questo godibilissimo “Cool It Down”, in pratica si rivolge a noi dicendoci: “raffreddatelo” il pianeta, non fate i codardi (prima parola del disco). Si incomincia sputando dai confini del mondo, “Spitting Off The Edge Of The World” (Feat. Perfume Jesus) addentrandoci in un sound che sa di Velvet Underground del secondo millennio (“Cool It Down” era un brano dei VU nell’album Loaded), intriso di tastiere new wave su basi avant-funk. Ovunque ci sono richiami degli ’80 (Hungry Like A Wolf) rivitalizzati e proiettati nei duemilaeventi, in salsa psichedelica con sfumature jazz. Un coacervo di sensazioni che si intrecciano a ripetizione.
La sensualità di Karen si sprigiona a più riprese, specie su “Lovebomb”, il cui incipit simula un amplesso che imbarazza l’ascoltatore occasionale.
Sorprendente.
3. SUEDE
Autofiction
[BMG]
La nostra recensione
La perfetta operazione nostalgia.
Definirei così il ritorno degli Suede, che sale sul podio del 2022 cancellando di fatto 30 anni di storia, come se dopo “Animal Nitrate” fosse uscito “She Still Leads Me On”, primo singolo del disco della rinascita. C’è infatti la stessa energia esplosiva degli esordi di quella band che sembrava gli Smiths con l’eleganza dei Roxy Music e la faccia di ca*** dei Sex Pistols. Ascoltate “Personality Disorder” oppure “Shadow Self” per farvi un’idea di questa ritrovata energia.
Non mancano incursioni in territori dark tipo “Black Ice” o “Turn Of Your Brain And Yell” in salsa Cure oppure ballate “What am I Without You” a suggellare ancora una volta la capacità di cambiare velocità e livello di emozioni.
Chi si aspettava che gli Suede esplorassero nuovi territori o si infilassero nel filone di quelli che inseriscono l’elettronica perchè con “l’elettrica” non sanno più cosa dire rimarrà deluso.
I più agè invece ritroveranno in questo disco la propria comfort zone quasi intatta, come se il tempo non fosse mai passato. E naufragar gli sarà dolce in questo mare.
Gustabile.
2. TRENTEMà’LLER
Memoria
[In My Room]
La nostra recensione
Ancora non me ne capacito di come possa avermi catturato in questa maniera un disco così impalpabile, etereo, sospeso tra mille miglia di vuoto. Tra lo shoegaze ed il dream pop, tra new wave e industrial techno. Non riuscivo a tagliere questo doppio vinile dai giradischi, avanti indietro, lato A, B, C e D senza tregua. Poi esci di casa, sali in macchina e vai di streaming. Ma perchè?
E’ la sintesi dei miei ascolti degli ultimi dieci anni in un solo album, dalla mia passione per gli Slowdive al trasporto per Apparat / Moderat. Da Burial a Four Tet, da Sigur Ros a Mogwai, da Sonic Boom a Panda Bear.
Con la vocalist Lisbet Fritze a supporto dell’artista compositore danese, a dare un appiglio terreno a questo space trip.
Un viaggio all’interno del nostro corpo (bellissima la copertina come radiografie sovrapposte delle nostre mani), delle nostre reminescenze e appunto la Memoria.
Sorprendente.
1. JACK WHITE
Fear Of The Dawn
[Third Man Records]
La nostra recensione
Per recensire questo disco basterebbe scrivere delle parole a caso, mescolarle e cercare di dargli un senso compiuto, badando di formulare solo lodi sperticate e applausi a scena aperta. Per dirla in maniera contemporanea usando delle keywords. Ognuno poi la legge come crede ma il contenuto non cambia.
Si perchè cercare di descrivere questo disco significa sminuirlo, erodere la sua quintessenza di creatività . Questa esplosione di fuzz-funk, punk, hard-rock, blues, breakbeats e hip-hop davvero disorienta l’ignaro ascoltatore.
John Anthony Gillis, da Detroit, Michigan, USA ci accompagna in un viaggio attraverso 100 anni di musica, dei quali 60 passati e 40 futuri. Un trip per farci vincere la paura di arrivare all’alba, come recita il titolo parafrasando la “Fear Of The Dark” degli Iron Maiden, rimembrando Rage Against The Machine, Black Sabbath, i Deep Purple, gli Allman Brothers Bands, i Tribe Call Quest (Q-Tip è la guest star dell’album. ed i Kinks.
Il successivo “Entering Heaven Alive” che uscirà in estate confermerà la poliedricità del genio di Detroit, con un secondo album analogico ed acustico contrapposto al primo digitale e sintetico, che saprà riempire le vostre Lazy Sundays.
Geniale, senza se e senza ma.