The definition of recovery is returning to a place of strength. Most importantly, it’s preceded by the surrender to the need for recovery, the need for change, to go away and reflect, to have that fundamental change you’re seeking. It’s the overarching narrative of the story.
(James McGovern)
Ci avevano già stregati con il debutto “When I Have Fears” (prodotto dal grande Flood), uscito nell’estate del 2019 e ora, passato il picco pandemico, i cinque dublinesi tornano sulle scene con un disco coloratissimo solo nella copertina, anche se in realtà sono molteplici le sfumature che troviamo tra le ombrose pieghe di questo nuovo lavoro. Anzi, la scura palette si è alquanto allargata rispetto ai brani della perla nera uscita in era pre-covid. La band riesce in maniera ancora più convincente a sfuggire da cliché maudit e indie-rock definendo una personalità ricca e originale, seppure vagamente accostabile ai tanti riferimenti che potrebbero citare critici zelanti così come, dall’altra parte, ascoltatori pigri e monodimensionali.
Non solo quindi i Murder Capital sono qui per restare, ma anche per definire una loro peculiare estetica e poetica, al crocevia tra una introversa, tesa confessionalità e una maestosa visione quasi letteraria. Rispetto a ben più famosi conterranei come i Fontaines D.C., con i quali condividono una certa vena decadente, qui prevale un approccio più involuto e obliquo, che esplode di una rabbiosità più spettrale se paragonata a quella espressa nei momenti più muscolari di altri act moderni accostabili, come nel caso degli Idles. L’ossessività, le trame scheletriche e geometriche vagamente tipiche del genere confluiscono in un’originale fioritura di sinistre figure di sbieco, intersecanti allucinati frammenti processati, che avvolgono il crooning leggermente più meditativo e in definitiva più credibile di McGovern, ma con un tocco che spinge verso un panorama sonico-psicologico osservato più di sguincio, più sfumato e che quindi, ripensando alla categoria giornalistica nella quale potremmo collocarli, apre a una percezione invero più profonda e particolare.
Data la sua sfuggente complessità, “Gigi’s Recovery” quasi sicuramente non farà i numeri dei recenti dischi delle band sopraccitate, ma non è assolutamente un lavoro da meno per potere evocativo. Anzi, il fascino espressionista ed arty di questa opera sonora apre a brade sofisticatezze che fanno decisamente spiccare l’ensemble irlandese nel panorama indipendente internazionale. Percepiamo una cifra futuribile e fortemente enigmatica tra i solchi di queste 12 tracce, una autarchica presa di distanza dal mondo che però per converso restituisce una sincera e soavemente brutale diapositiva del qui e ora, che diventa futuro, e quindi diventa ogni tempo, e quindi forse, alla fine, speranza.