C’è sempre stato qualcosa di profondamente sovversivo nella musica degli Horseloverfat, sestetto emiliano formato da un nutrito gruppo di musicisti che in passato hanno collaborato con Vinicio Capossela, Mirco Mariani, Paolo Fresu, Jimmy Villotti, Paolo Simoni, Fabrizio Bosso, Massimo Simonini, Mitchell Froom, Marc Ribot, Howe Gelb, Stevie Wynn, Bruno Perrault.

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Attivi dal 2016, hanno aperto il concerto dei Verdena all’Estragon di Bologna con il loro caos organizzato e  ormai arrivati al sesto disco continuano a pescare nel subconscio, navigando tra i ricordi musicali dei vari componenti di una formazione spesso allargata dai numerosi collaboratori che gravitano attorno al polistrumentista Hans Sachs.

Presentato come un vero e proprio ritorno alle origini, “Satanic Resort” è un concentrato di spirito garage e adrenalina, anarchico e ribelle, un flusso quasi ininterrotto di idee, immagini brutali e goliardiche con tutto il corollario a cui il titolo satanico fa riferimento snocciolato tra il serio e il faceto. Si aggiungono al gruppo Franco Naddei, Antonio Gramentieri alla chitarra, Vince Vallicelli alla batteria e Roberto Villa al basso in undici brani registrati in presa diretta, in soli quattro giorni in analogico su nastro Studer A80 e masterizzati da Jim Diamond (produttore dei primi White Stripes ed ex membro dei Dirtbombs).

Il risultato è una cavalcata che ricorda un quadro di Hieronymus Bosch, con tanto di dettagli folli e assurdi. “Bon voyage” – nata a Tucson ben dieci anni fa – diventa “Au Revoir” quando viene registrata al contrario, la velocissima title track è punk quasi come “Beautiful Bitches” e “Bordertown Mistress”, “Mass and Power” cita Elias Cannetti in otto minuti di teutonico furore, “Sokka Gakkai” rilegge l’onda psichedelica nipponica, “Alien” è decisamente irrefrenabile. Diavoli tentatori o Lucignoli che siano, gli Horseloverfat sanno come assaltare il giardino dell’Eden.