Mancava all’appello Dave Rowntree nel vasto numero di esperienze musicali soliste che hanno costellato la carriera dei Blur in attesa di quel nuovo album largamente promesso.
Il batterista Rowntree è l’elemento più enigmatico dei quattro, quello con il maggior numero di interessi anche extra musicali (politica, animazione, oltre a podcast e colonne sonore) difficile quindi sapere in anticipo cosa potesse nascondere “Radio Songs” nato dall’incontro col produttore Leo Abrahams (Wild Beats, Brian Eno, Ghostpoet) e da una manciata di collaborazioni tra cui Gary Go e Högni Egilsson.
Un debutto in solitaria decisamente eclettico in cui Rowntree trova la sua voce nel senso letterale del termine: al microfono in ogni brano non è certo un virtuoso ma tocca le corde adatte al mix di elettronica ed emozioni del disco. Un animo analogico e digitale che in “Devil’s Island” punta su synth e drum machine mentre in ballate dal cuore d’oro come “Downtown”, “1000 Miles” e “Black Sheep” mette mano al pianoforte. Elettro pop (“London Bridge”) e orchestrazioni sperimentali (“HK”) “Tape Measure” e il minimalismo spettrale di “Machines Like Me” rivelano la provenienza delle influenze meno brit pop dei Blur, ben evidenti nella seconda parte della loro carriera (da “Think Tank” in poi).
Un disco di contrasti ben armonizzati con un finale – “Volcano” e “Who’s Asking” – tra sci fi e melodia. Non siamo dalle parti del prolifico Graham Coxon o di un Damon Albarn ma questi sono dieci brani avventurosi dove prevale l’anima del Rowntree nato e cresciuto in una casa piena di musica (la madre suonava la viola, il padre lavorava come ingegnere del suono alla BBC). “Radio Songs” è la summa di tutto questo, un esordio d’atmosfera ritmato e interessante.