Classic rock e alt folk sono le linee guida del secondo album dei Pitchtorch, trio formato da Mario Evangelista (The Gutbuckets) alla chitarra, il bassista e contrabbassista Danilo Gallo (un terzo dei Guano Padano in compagnia di Alessandro “Asso” Stefana e Zeno De Rossi e nel quartetto Dark Dry Tears) e il batterista Marco Biagiotti (The Vickers e turnista per L’Albero).
Dieci brani dalle varie sfumature, impreziositi dalla presenza di Joachim Cooder, Beppe Scardino (C’Mon Tigre, Calibro 35, Diodato) e Francesco Bigoni.
Mood disincantato ma decisamente ottimista quello messo in musica dalla band di base tra Firenze e Milano che non nasconde le proprie fonti d’ispirazione – The Allman Brothers Band, Calexico, Wilco – ma cerca di creare il proprio percorso in totale autonomia.
Ballate grintose come “Sometimes” e “Time” o dolci come una “Flying Ants” quasi sussurrata, la delicatezza di “Ask The Dust” e l’ironia del singolo “Jack Of All Trades” che fa i conti con le mille peripezie del fare musica trasformando la passione in lavoro segnano il nuovo corso dei Pitchtorch che non rinunciano alla melodia ma abbracciano un ritmo spesso incalzante.
Particolarmente riuscite in questo senso la graffiante “That’s Our Blues” e “Downtown Livorno” che col piglio di una jam session trasforma la città toscana in una piccola New Orleans (il disco non a caso è stato registrato ai livornesi Jambona Lab Studio).
Un’altra ballata ben riuscita è “Mother”, intensa e giocata su una dinamica tra voce e chitarra di grande atmosfera. L’accattivante “Blame It On The Moon” con i suoi echi country che raggiungono il culmine nella title track finale completano un quadro confortante. C’è anche qualcosa dei The Gaslight Anthem e degli Uncle Tupelo nel DNA di “I Can See The Light From Here”, quanto basta a fare dell’album un ascolto consigliato.