L’unico vero viaggio è, probabilmente, quello che facciamo in noi stessi e non è detto che esso debba procedere, necessariamente, sempre in avanti. Esistono diverse direzioni, diverse prospettive, diverse dimensioni, diversi orizzonti nei quali poter divagare. In tale contesto emotivo anche un ritorno, come è accaduto per il Godot Art Bistrot, può essere misterioso, innovativo ed interessante, perché, nel frattempo, l’intero universo non è più il medesimo luogo dal quale siamo partiti; è cambiato assieme a noi, così come cambiano le angolazioni psichedeliche svelate dai Juju, pur rimanendo sempre fedeli alla propria sensibilità e al proprio desiderio di sperimentazione e di conoscenza.
“Samael”, “In A Ghetto”, “Master and Servants”, “Motherfucker Core” definiscono le proprie costellazioni oniriche e shoegaze, in un alternarsi di passaggi più riflessivi e più passionali, mentre le nostre anime analogiche vengono attratte da una accattivante spirale di ritmiche elettroniche, il cui obiettivo, però, è quello di amplificare l’intreccio e la connessione di sonorità eterogenee tra loro che guardano al funk, all’afro-beat, alle trame più acide e lisergiche del rock spaziale. Sonorità che hanno il dono di risvegliare i numi tutelari della progressive-rock e del kraut-rock e proiettarli sullo schermo oscuro di questo nostro tormentato presente, tentando di renderci più permeabili rispetto a quelle che sono le percezioni, gli stimoli, le voci e le richieste provenienti dal mondo esterno, quello reale, non certo quello virtuale ed illusorio nel quale, purtroppo, sempre più frequentemente, vincoliamo le nostre precarie, grigie, solitarie ed aride esistenze.
La musica, dunque, in serate come quella di ieri sera e, più in generale, ogni qual volta abbiamo la possibilità di ascoltarla, suonarla, apprezzarla e viverla in maniera collettiva e condivisa, senza alcun condizionamento sociale, virale, economico o geografico, ci permette di oltrepassare la nostra limitata e bellicosa individualità, ci consente di intercettare emozioni e sensazioni più pure, più vere e più innocenti, scoprendo una umanità che, da millenni, è in grado di connettersi e di interagire, al di là di ogni barriera artificiale, di ogni mare, di ogni deserto, di ogni confine teorico. Ciò dona al concerto – anche quando ciascun ascoltatore viaggia nella propria intimità, anche quando la componente onirica e meditativa è così intensa e profonda – un lato più politico ed espansivo che ci esorta a valutare come quelle censure e quelle restrizioni che operiamo, anche nel nostro piccolo mondo quotidiano, siano, in realtà, del tutto inutili ed insensate, oltre che trasformarsi nello strumento con cui influenzare, in maniera univoca, i nostri comportamenti e le nostre decisioni.
Non siamo stati creati per rimanere isolati nelle nostre fobie, ma per scoprire nuovi territori, nuovi orizzonti, nuove mappe sensoriali, nuove ambientazioni sonore, costruendo, anche sbagliando ed imparando dai propri errori, nuove forme espressive di comunicazione, di contatto, di comunione, di dialogo.