Ci sono coming of age, racconti di formazione, chiamate questo “Armageddon Time” come volete, che ci ricordano la magia della crescita, la tenerezza, l’innocenza, e poi c’è, per l’appunto, questo “Armageddon Time” che ci ricorda invece il momento in cui impariamo a lasciar passare, to let it go, le ingiustizie, le iniquità che il nostro sguardo bambino continuerebbe a rifiutare, il momento in cui ci corrompiamo, come se diventare adulti in una certa misura lo necessitasse.
Certo c’è il nonno di Paul, un superbo Anthony Hopkins in una fase finale di carriera straripante, che incita il piccolo Paul, un bravissimo Banks Repeta, a non mollare invece, a brillare di gentilezza per sempre e seguire i suoi sogni.
Gray però ci mostra anche l’umanità e le ragioni di quella parte di famiglia che invece fa da freno alla purezza del giovane ribelle, a partire dall’insicuro papà Irving, un Jeremy Strong con i capelli spolverati di bianco e lontano dai tic nervosi di “Succession”.
Il tocco è molto delicato, la regia quasi invisibile, ma efficace a mostrarci il dolore del tradimento, comunque osteggiato e inevitabile, ai danni dell’amico di colore, unica persona che credesse davvero a Paul, che lo spronasse ad andare per la sua strada mentre la famiglia e le istituzioni iniziano a etichettarlo come “lento” perchè incapace di seguire alla cieca il loro flusso.
Fanno sfondo alle vicende degli anni ’80 desaturati, dove alle hit synthpop si sostituiscono i cori entusiasti per l’incombente vittoria di Reagan e le ovazioni alla famiglia Trump che foraggia la scuola privata dove la famiglia Graf, immigrati ebrei-ucraini che hanno cambiato il cognome per avere una chance, finisce col mandare entrambi i figli.
“No one will guide you through Armagideon Time“, The Clash.