Tutto sommato quello che stanno facendo i fratelli Hartnoll dalla loro reunion, prima o seconda va bene lo stesso, è certamente qualcosa di lodevole e sensato, riuscire con la consapevolezza dell’esperienza maturata ad inglobare all’interno del progetto Orbital, dalle origini molto più centrate su un’elettronica trance ed onirica, cose anche diverse e parallele come l’acid house, la prima rave, la techno, stili insomma un po’ più assortiti ma che servono al duo inglese per elaborare la nuova versione del proprio percorso.
“Optical delusion” non si sottrae a questo giochetto, inanellando una serie di brani che senza illusioni ottiche sono riconoscibili come Orbital al primo ascolto, ma declinati di volta in volta in generi diversi, con qualche magari frame interno per spezzare la costruzione del brano: la cosa funziona mediamente in tutto l’album che per la prima è quasi tutto cantato o per lo meno con la presenza di qualche inserto vocale, questa la vera novità, con una serie di featurings che danno semmai qualche elemento in più di contaminazione al già importante ibrido musicale.
A dire il vero, queste performance vocali così numerose tendono nel complesso alla saturazione, non sono, come logico aspettarsi, tutte allo stesso livello, forse ci voleva un po’ di parsimonia, ma insomma ci sono brani molto riusciti come l’interpretazione di Anna B Savage in “Home” in cui si esalta il contrasto fra il dolente canto emotivamente vibrante ed il substrato quasi drum ‘n’ bass, come pure quello di Penelope Isles in “Are you Alive?”, superclassica avvolgente ballata elettro dei nostri.
Vi è quindi poco di illusorio nelle intenzioni della band, che di fatto realizza un album di solido mestiere, che sa tanto di roba buona, più o meno sulla falsa riga di quanto espresso dai “colleghi” Leftfield l’anno scorso con la loro recente produzione, forse con un po’ più di ambizione ma rimanendo all’interno di una dinamica di suono collaudata ed esperta, che in ambito elettronico insomma vuol dire tanto ed è rischioso, vista la caratteristica insita di obsolescenza di questo genere ed è pertanto anche notevole, specie quando si riesce a mantenere qualcosa di comunque apprezzabile nella tradizione.
Un discorso in più va fatto per la collaborazione con gli Sleaford Mods in “Dirty Rat”, picco dell’album ed episodio che ne chiude il cerchio rappresentandone allo stesso tempo un’anomalia, un’incursione non richiesta ma dritta al centro e con entrambi i piedi dentro il contesto politico britannico, sbraitato dalla voce più genuina e senza peli oggi in circolazione, quel Jason Williamson che a suo modo non le manda a dire neanche qui, anzi la fa semplice e chiara (People talk about the right way to live/Shut up you don’t know what ya on about/You voted for em, look at ya!/You dirty rat) con una canzone che pesta, partendo da un basso post hardcore e sviluppandosi poi in travolgente sintesi fra spoken e ritmi dancefloor, per cui mezzo voto in più solo per questo.