Quando i Depeche Mode iniziarono con “Speak And Spell” si presentarono con un album synth pop scritto quasi nella sua interezza da Vince Clarke, solo i contrasti che determineranno la sua fuoriuscita riuscì poi a far iniziare la vera carriera di Martin Gore and company.
Il successo immediato poi confermato con il successivo “A Broken Frame“, decretò definitivamente che i ragazzini avevano finito di andare a scuola ed erano davvero così talentuosi da poter dire la loro.
Mantenendo una certa dimensione pop unita ad una naturale dimensione mainstream, che farà negli anni la loro fortuna, saranno in grado di mettere d’accordo ascoltatori di tutti i tipi senza mai cadere nella banalità e raccogliendo un meritato e variegato successo.
All’epoca in UK li considerarono i possibili nuovi Beatles (in verità lo dicevano di qualsiasi giovane band) e tutto sommato la loro carriera, fatte le dovute distanze, si pone sicuramente in posizioni rilevanti.
Una band che ha dimostrato negli anni una chiara attitudine pop (se qualcuno ha problemi con la parola pop ci possiamo anche mettere davanti la parola dark, ma per quanto mi riguarda non l’ho mai trovata una definizione che calzasse perfettamente con lo stile della band), una capacità di una costruzione meticolosa del brano e maniacalmente realizzata dai vari collaboratori e componenti che si univa sempre perfettamente con l’indiscutibile capacità naturale di Martin Gore di trovare il modo di agganciare l’ascoltatore di ogni tipo.
A differenza dei Cure che troveranno nel tempo la strada del successo prima minore ma importante (“The Head on The Door“) e poi planetario, inaspettato e santificante (“Disintegration“), quando per i vecchi fan ormai avevano già ormai detto tutto ma che a sorpresa riuscì a raggiungere una nuova generazione di ascoltatori e critici che ovviamente adorarono e ancora adorano questo album (io non sono tra questi, come alcuni pochi fan della prima ora ma questa è un’altra vecchia pericolosissima storia), i Depeche Mode hanno saputo da subito raggiungere un certo successo e un seguito che verrà costantemente alimentato negli anni e che troverà nel loro capolavoro “Violator” un momento topico.
All’epoca “Some Great Reward” non mi aveva convinto molto, conteneva i loro peggiori singoli “People Are People” e “Master and Servant”, ma “Black Celebration” aveva riacceso il mio interesse, l’album era ispirato, caldo, intenso ed anche Dave Gahan convincente, in effetti aprirà un periodo d’oro per la band irripetibile.
“Violator” sarà a sorpresa un ulteriore decisivo passo in avanti, la produzione di Flood sarà essenziale, fresco della collaborazione con Brian Eno al servizio degli U2, avrà un ruolo fondamentale unendo la sua maniacale attenzione nella realizzazione tecnica dei brani alla capacità compositiva di Martin Gore, questa volta al suo massimo, avrà ora completamente in mano le sorti della band in modo definitivo.
L’album li consacrerà a livello mondiale rendendoli definitivamente un fenomeno di massa con fan devotissimi che non li molleranno più e ancora oggi riempiono gli stadi.
Un successo indubbiamente meritato per un album praticamente perfetto che metteva d’accordo tutti, sarà anche il lavoro che maggiormente riassumerà e valorizzerà le caratteristiche della band e la loro precisa divisione dei ruoli con l’autore Martin Gore , i tecnici e il cantante Dave Gahan che resta sempre il valore aggiunto di ogni brano.
Prima ho citato i Cure per un’analogia oggettivamente e volontariamente contorta ma in effetti la struttura dei DM è in fondo simile a quella di molte altre band e il destino di Dave Gahan è simile alla voce solista di The Who (Roger Daltrey ha cantato per tutta la sua carriera le musiche e i testi di Pete Townshend con la capacità unica di tirare fuori con naturalezza lo spirito del testo e sempre professionalmente sorprendente on stage), a livello personale resta un ruolo e un immagine un po’ frustrante, ma sicuramente testimonia la solidità tecnica e operaia della band.
Altra caratteristica dei DM è sempre stata quella di riuscire sempre ad essere estremamente popolari mantenendo una caratteristica di sperimentazione capace di incanalarsi nella ricerca di una perfezione del brano, ricerca della strumentazione giusta, del loop del sample della melodia giusta, agganci pop uniti alla ricerca è la cifra che distingue la band anche nei brani dove meno si percepisce, una qualità unica difficilmente ripetibile da altri per così tanto tempo.
Ma a tutto questo bisogna aggiungere che di per sé i DM hanno da sempre un’alchimia tipica delle grandi band, al netto dei naturali contrasti anche personali Martin Gore ha avuto la capacità di mantenere insieme i vari componenti negli anni mostrando artisticamente i muscoli anche aiutato dal grande successo.
In realtà il post “Violator” era stato particolarmente complicato, i DM si apprestavano a realizzare un nuovo lavoro con Martin Gore che sentiva la pressione di un album precedente così potente, Dave Gahan era alle prese con la sua sempre più pesante dipendenza dalle droghe e anche di Andy Fletcher non se la passava bene, triste e depresso abbandonerà il tour che farà seguito all’uscita di “Songs of Faith and Devotion“.
In effetti se la realizzazione di “Songs of Faith and Devotion” in fondo andò anche bene il lungo tour successivo all’album rischiò di distruggere la band, accentuando le debolezze e insicurezze di Andy e anche quelle di David che collassò sul palco di New Orléans colpito da un infarto causato da abuso di droghe.
L’album quando uscì balzò ai primi posti un po’ dappertutto, l’effetto di “Personal Jesus” era ancora forte, nonostante il singolo scelto “I Feel You” che apriva anche l’album non fosse di certo il loro miglior pezzo, povero anche sul lato testo.
In effetti neanche i componenti della band lo avrebbero voluto come apripista, andrà meglio con “Walking in My Shoes” che anche nel testo sembrava richiamare la situazione difficile e particolare di Dave.
Gli altri singoli furono “Condemnation” e “In Your Room”, il primo in particolare resta uno dei pezzi migliori, nel quale il cantato di Dave esprime tutta l’intensità gospel del brano in una interpretazione che all’epoca mi piacque parecchio e che ancora oggi ascolto volentieri.
L’album completerà il momento d’oro dei Depeche Mode, che comunque offrirà la coda di “Ultra” che indubbiamente ha anche lui qualche episodio notevole.
Pubblicazione: 22 Marzo 1993
Genere: Alternative rock
Lunghezza: 47:26
Label: Mute
Produttore: Depeche Mode, Flood
Tracklist:
I Feel You
Walking in My Shoes
Condemnation
Mercy in You
Judas
In Your Room
Get Right with Me
Rush
One Caress
Higher Love