Uscito dopo appena due anni dal precedente, “Open Door Policy”, questo nono album degli Hold Steady, registrato presso The Clubhouse Studio di Rhinebeck, NY insieme al produttore e loro collaboratore di vecchia data Josh Kaufman (The National, Cassandra Jenkins, This Is The Kit), segna anche il loro ventesimo anniversario come band.
Il frontman Craig Finn spiega:
Queste sono alcune delle canzoni più cinematografiche del catalogo degli Hold Steady e la realizzazione del disco è stata una gioia. Sento che siamo andati in un posto che non avevamo mai raggiunto prima, il che è una cosa molto eccitante per una band che è arrivata a due decenni di carriera.
Con queste ottime premesse siamo curiosi di andare a tuffarci in questi quasi quaranta minuti e in appena una manciata di secondi di “Grand Junction” troviamo subito un elemento piuttosto insolito nella musica del gruppo statunitense, i synth, supportati ovviamente dai solidi riff delle chitarre di Tad Kubler e Steve Selvidge che non mancano mai, mentre il solito Finn racconta le sue storie, da buon narratore quale è sempre stato.
Il singolo principale “Sideways Skull”, invece, viaggia più su intensi binari rock ,tradizionali per gli Hold Steady, in cui le sei corde recitano la parte da protagoniste, ma non mancano il piano di Franz Nicolay, da sempre loro arma vincente, e gli splendidi backing vocals, cortesia delle fantastiche Cassandra Jenkins e Annie Nero, due vere e proprie garanzie.
Se poi vogliamo parlare di sensazioni cinematografiche basta andare poco più avanti e troviamo la bellezza di “Understudies”, tra piano, splendide melodie, le belle di linee di basso di Galen Polivka e soprattutto un rigoglioso fiorire di fiati con un tocco jazzy che sembra voler entrare con eleganza all’interno della canzone.
“City At Eleven” è davvero particolare (rispetto al resto della produzione degli Hold Steady): ancora il piano recita una parte importante, ma, pur rimanendo anche le solite chitarre, ci sono anche strane sensazioni funk e jazz che non ci saremmo aspettati dal gruppo di Craig Finn, oltre a una grandissima passione nei vocals: probabilmente a un primo ascolto si rischia di rimanere spiazzati (o almeno questa è la sensazione che abbiamo provato noi), ma man mano che gli si dà altre possibilità la qualità diventa evidente.
Interessante anche il lavoro su “Distrortions Of Faith”, una ballata al piano lunga oltre cinque minuti, assolutamente mai scontata o banale che regala un graditissimo momento di tranquillità e di riflessione al disco.
Un album come sempre molto solido, questo “The Price Of Progress”, mentre rimane legato a una tradizione rock, dà comunque la possibilità agli Hold Steady di provare anche alcune nuove sonorità con risultati decisamente buoni: dopo ormai venti anni di carriera, Finn e compagni dimostrano di avere ancora tanto da dire e di saper creare con molta concretezza lavori di grande valore.