Perché una band come i Metallica dovrebbe lasciarsi influenzare da quello che piace, oggi, alle radio rock commerciali? Certo, i fremiti ed i sussulti appartengono al passato, i brividi di terrore provocati dalle mitragliate trash-metal degli album leggendari, prodotti negli anni Ottanta, sono, ormai, stati, giustamente, consegnati al mito ed alla storia del rock ed il rischio di sprofondare in una farsa è sempre dietro l’angolo, ma questo disco, come anche il precedente, mostrano, almeno, che la band americana ha compreso che non le conviene sposare sonorità eccessivamente in linea con i gusti e le mode alternative-rock del momento. Meglio, invece, continuare a seguire il proprio istinto più selvaggio, duro e vibrante ed affidarsi a quella che è una bollente ed eccitante miscela di hard-rock ed heavy-metal, anche se la cattiveria non può più essere, ovviamente, quella del 1983.
l tempo, infatti, è inesorabile: il suo effetto può essere terapeutico, ma può anche essere traumatico, soprattutto se ci chiudiamo in un eterno, statico ed immobile presente che non ammette né fragilità, né debolezze, né malattia, affidando, di conseguenza, alle macchine ed alla tecnologia un’esistenza che, svuotata dai propri contenuti, diviene, sempre più, simile ad uno slogan pubblicitario. Fortunatamente, però, i Metallica ne sono consapevoli, affilano le loro chitarre e danno vita ad un lavoro che si ispira alla vertiginosa velocità vintage del thrash e dello speed metal dell’epoca d’oro, mostrando, però, allo stesso tempo, una vivace e rigogliosa dose di drammaticità, dolente e blueseggiante, che rammenta, ai quattro cavalieri, ogni momento di gioia o di frustrazione, di rabbia o di rammarico abbia fatto parte della loro storia; una storia che non deve, musicalmente, congelarsi, ma che deve continuare a fluire e a scorrere anche in questo mondo globalizzato, digitalmente connesso, nel quale è facile perdersi e rimanere soli, finendo in un labirinto artificiale che non fa altro che amplificare le nostre paure, le nostre manie, tutti i nostri diabolici vizi.
Rievocare, dunque, ma contemporaneamente reagire a tutto ciò che è solamente finzione artificiale e soprattutto a tutte quelle tentazioni che ci rendono schiavi e ci impediscono di valutare la verità del mondo che abbiamo attorno. Le ritmiche divengono tortuose ed estenuanti, soprattutto quando affondano le proprie radici sonore in un’esperienza di riabilitazione, materiale e spirituale, del quale anche “72 Seasons” è una testimonianza cruda e veritiera, con i suoi momenti più cupi ed ossessivi, che richiamano le tormentate sonorità grunge degli anni Novanta, ma anche con quelli più frenetici ed abbaglianti che rappresentano la spontanea evoluzione di un viaggio metallico, incominciato tanto tempo fa, nel nuovo e promettente, complesso e contraddittorio secondo millennio.