Il santuario del titolo di questa riuscita serie della filiale giapponese di Netflix è il “dohy?”, il ring tipico del sumo. Ancor prima che i personaggi, con le sue regole ferree, quasi religiose e la sua tradizione, è infatti proprio la lotta tipica del Sol Levante la protagonista della serie.
Devo dire infatti che se ho resistito all’inizio della serie, invero un po’ ostico e lento, anche perchè ci vuole un po’ ad acclimatarsi a ritmo e humor locali, è stato proprio per la sorpresa Sumo, una disciplina di cui sapevo nulla e della quale tutto quello che immaginavo era sbagliato. A partire dalla sua violenza, che data la mole dei combattenti proprio non mi figuravo.
Ad ogni modo la storia alla base della serie è molto avvincente. Mette insieme diversi outsiders, tutti inevitabilmemte adorabili, che con il tipico mix di rispetto e rivoluzione della tradizione otterranno il proprio riscatto. Anzitutto il protagonista, Enno, interprete poco ortodosso del sumo, ma proprio per questo esaltante, che dovrà sgomitare non poco per farsi rispettare dai suoi compagni di squadra, ma anche una giornalista “degradata” dalla politica allo sport, un lottatore infortunato, uno con un passato difficilissimo, e diversi altri.
Vi è poi tutta una parte di storyline più politiche che fungono da riflessione sulla controversia in atto tra sumo e modernità e sulla società giapponese odierna in generale.
Forse un paio di episodi in meno avrebbero alleggerito la visione, ma in una serie sul sumo, lo spettatore, un po’ di peso in eccesso deve pure metterlo in conto.