E anche quest’anno siamo arrivati alla terza e ultima giornata del Primavera Sound Festival, nonostante il cuore rimanga tuttora saldamente ancorato al giorno precedente (se non avete presente cosa sia successo, qui trovate il riassunto di com’è andata).
A dare inizio alle danze stavolta è stata Arlo Parks, che ci ha riconfermato la bravura che avevamo già avuto modo di vedere in precedenza; due solo sono state le pecche stavolta: in primis l’incredibile brevità dello spettacolo, durato 40 minuti scarsi e senza encore. Questo ha portato a una setlist scarna, per quanto carina (e veniamo quindi al secondo problema): molti i brani dal nuovo album “My Soft Machine”, si è però sentita parecchio la mancanza di pilastri come “Eugene”, “Cola” e “Too Good”.
Da un’atmosfera così tenera e poetica siamo arrivati presto a un vero e proprio rave con Sevdaliza, produttrice iraniana che sul palco ha parlato dell’importanza delle etichette indipendenti e di lottare per ciò in cui si crede nonostante tutto, soprattutto se c’è anche solo una persona che ci supporta. Con questo stesso supporto, dopotutto, dopo 10 anni di carriera, l’artista è arrivata su uno dei palchi principali di uno dei festival più importanti d’Europa. Un’icona, un’ispirazione, uno dei rave più liberatori e interessanti a cui potessimo partecipare.
Altra personalità decisamente iconica è stata quella di St. Vincent; l’avevamo già avvistata l’anno scorso al Mad Cool Festival, ma è proprio quel tipo di artista che più vedi e più hai voglia di rivedere. Carismatica, dolce, un mostro alla chitarra con una presenza e una voce più seducente che mai, la stessa voce con cui tiene in pugno il pubblico anche solo sussurrando “Papa està en casa” (“Daddy’s Home” in spagnolo). Pendiamo tutti dalle tue labbra, miss Clark.
Facciamo una veloce pausa dei The Voidz (purtroppo in contemporanea a St. Vincent, dall’altra parte del Parc del Forùm): nonostante riusciamo ad avvistarli per soli venti minuti scarsi, rimaniamo decisamente impressionati dalla bravura di Casablancas e gli altri membri del gruppo, nonché dal debutto live dell’ultimo singolo “Prophecy Of The Dragon”.
Ed ecco che tocca a Caroline Polachek, forse l’artista che eravamo più curiosi di vedere in questa giornata. Il suo secondo album “Desire, I Want To Turn Into You” ci aveva fatto impazzire, ma come sarebbe stata la resa live? Bene, ve lo possiamo dire: la Polachek è la popstar che ci meritiamo e di cui avevamo disperatamente bisogno. Lei è nata per dominare il palco, e lo sa perfettamente: più che un semplice concerto è stata un’esperienza propriamente erotica, oseremmo dire. Dalla sua isola ce ne siamo andati a malincuore, ma mentalmente non possiamo che ripensare a quanto ci abbia conquistato.
Potrà stupire, ma forse la Polachek ci è piaciuta ancora più dall’artista più attesa di tutto il festival, Rosalia. Molto brava, una voce unica, una vera e propria performer… C’è un però. Non riusciamo a non pensare che il concerto sarebbe potuto risultare molto, molto più soddisfacente. Non vogliamo dire che sia stata deludente, perché oggettivamente l’artista catalana ha dato vita a uno spettacolo di tutto rispetto, ci sono però state una serie di problematiche che hanno impedito una resa effettivamente buona della performance: problemi con l’audio (al punto che durante “Hentai” o “Diablo” si faticava quasi a sentire la voce della cantante), problemi con il video dei maxi schermi (a volte andava a tratti, altre si bloccava proprio). Non per ultime le aspettative troppo alte che ci eravamo creati: avevamo sentito così tanti pareri positivi su Rosalia in live che pensavamo di ritrovarci davanti il concerto della vita, e invece siamo rimasti (leggermente) delusi. Non per causa sua, ma perché intorno a lei si era creata un’aura di così grande adorazione e mistero che poi, a confronto con i problemi avvenuti durante il concerto, ci hanno fatto sentire un po’ di amaro in bocca. Ciononostante, la voglia di rivederla in un’altra occasione rimane: è innegabile come la catalana fosse in grado di tenere alto l’hype nonostante tutti i problemi tecnici, facendo addirittura cantare alcuni fortunati fan. Ci riaggiorniamo a quando riusciremo a rivederla.
Ciliegina sulla torta, per concludere la serata in bellezza, i Death Grips, di cui abbiamo potuto recuperare poco causa coincidenza con Rosalìa. Viviamo sicuramente nel migliore dei mondi possibili, perché veniamo presto a sapere che la loro esibizione è iniziata in ritardo a causa dei Maneskin, che si erano esibiti fino a poco prima su un palco vicino – impressionante l’affluenza per la band italiana, tra l’altro. Saputa questa novella, non sappiamo davvero se riderci su o farci un piantino, nel dubbio ci godiamo i poghi di cui i Death Grips fanno immediatamente venir voglia. La band americana non ha sicuramente perso tempo, suonando ininterrottamente i loro pezzi migliori al massimo delle energie, più arrabbiati che mai. Potevamo concludere quest’edizione del Primavera in modo più soddisfacente di questo? Assolutamente no.