Poteva prendere un paio di direzioni la carriera di Daniel Blumberg dopo i primi notevoli due album da solista, svoltare verso territori più consoni di un pop melodico assoluto o dedicarsi all’approfondimento del contesto sperimentale di cui una buona parte di questi lavori erano interessati.
“GUT” sceglie una terza via, come spesso succede, indotta e trascinata dal momento, pare molto lungo per il povero Daniel, in cui membra ossa sangue e percezione delle cose, fanno a patti col corpo fragile che li sostiene, un corpo sensibile e degno di assoluta e totale dedizione e dipendenza che ha lacerato gli ultimi anni di creazione dell’artista inglese, alle prese col suo stomaco malfunzionante e le derive psicologiche connesse, che in un profilo estrememente fragile come quello dell’ex Yuck certmente non sono state di secondo grado, considerato come si dice che dentro le nostre budella risiede il secondo cervello, la seconda parte critica della coscienza.
“GUT” è appunto un flusso di coscienza malato, tortuoso e refrattario all’accoglienza, un suono continuo e lungo poco più di una mezzoretta di circa 6 canzoni annodate in un dipanarsi senza interruzione di musica rarefatta stringata e minimale, ancora ai limiti della sperimentazione, con strumenti ridotti all’essenziale, pare tutti suonati dallo stesso Blumberg che spazzia dal basso acustico alla batteria, all’amata armonica.
“GUT” are le porte alla sofferenza vissuta, alla disperazione fatta carne e ossa, alla solitudine del dolore che, pare di vederlo, si fa lenire con queste limpide melodie, che avolte riportano in vita tutta l’eredità del grande Mark Hollis, voce e pianoforte, che dentro l’album fanno da dolce contro altare (“HOLDBACK”, “CHEER UP”) ai momenti violenti, deturpanti, grezzi, senza codice come la cifra del vero dolore, quello sordo che non si riesce a controllare, non si sa da dove arriva anche se si sa che prima o poi ci raggiunge; ma il sapere è limitato, ci si abbandona all’espiazione, alla cieca e ineluttabile volontà di affrontare questo tunnel senza limiti, nudi di fronte al nemico, vedasi appunto la nudità della copertina e la dimensione totalmente personale dell’approccio, al limite della repulsione di questa dichiarazione così profonda nell’epsressione e nei contenuti prettamente artistici, da porre un certo muro di fronte all’ascolto dell’album.
D’altra parte, quando si parla di talento e Blumberg ne è dotato, si accetta qualsiasi cosa, anche far parte del suo vomitare tutto se stesso fuori e dentro queste canzoni, in “BODY” letteralmente urlando dal dolore e contorcendosi, in un momento al limite massimo della sopportazione sonora, in cui comprensione e preghiera riescono ad arrivare ad una catarsi, al sollievo e al pensiero positivo di speranza, un accenno di serenità e di fede nella splendida , rassicurante ballad della finale titletrack, in cui finalmente ci si lascia alle spallle tutto il tormento, (“everything is out of gut”) e ci si abbandona a questo morbido tappeto di synth che duri all’infinito.
Un album a suo modo dolorosamente fascinoso, come lo sono le situazoni in cui la tragedia incontra il lirismo, un album per moment rari, per fan di Daniel, per chi vuole e sa di trovare dentro il dolore la bellezza.