Al primo ascolto di questo “But Here We Are” avevo attribuito al nuovo lavoro di Grohl e soci un tono spento e privo di spunti innovativi. Un ascolto più attento in realtà ha mostrato una spirito malinconico, piuttosto che “grigio”, che attanaglia l’intero full-length, seppur sempre racchiuso nei ranghi del sound tipico della band statunitense.
La coppia d’apertura formata dal primo singolo “Rescued” e da “Under You” in effetti mostrano i muscoli di puro stampo FF con quei caratteristici suoni accattivanti e ritornelli da folle oceaniche fino almeno alla mesta melodia di “Hearing Voices” che, prima facie, sembrerebbe lontana dai territori della band ma che, nota dopo nota, riporta alla memoria brani già presenti nel loro background.
Abbastanza scontato è l’ambiente in cui nasce questo undicesimo lavoro caratterizzato da una emotività portata allo stremo con la perdita prima del batterista della band, Taylor Hawkins, nonché amico fraterno di Dave Grohl e poi con la dipartita della mamma di quest’ultimo. Momenti che hanno scatenato ora forme sonore aggressive, rabbiose e crude come quelle contenute nella title track, ora atmosfere accorate e di rinascita contenute nelle melodie di “The Glass”, “Beyond Me” e “Show me how”, brano che vede Dave cantare insieme alla figlia Violet.
Prodotto da Greg Kurstin (All Saints, Beck, Red Hot Chili Peppers, Geri Halliwell, Rachel Stevens, Marion Raven, Karen O) e dai Foo Fighters, questo “But Here We Are” testimonia in maniera vivida il potere medicale della musica che assurge a risoluzione di tutte le difficoltà umane dove ogni singola nota può risultare definitiva per la speranza nel futuro, quello da vivere insieme ad amici e famiglia.
A riprendere le pelli in quest’occasione tocca ovviamente al buon Dave (Josh Freese invece siederà al suo posto durante il tour) che tra una battuta e l’altra regala ancora, benché con quel cennato tono malinconico, episodi diretti, immediati e anche potenti come in quei dieci minuti di “The Teacher” (dedicata alla mamma) o nella già citata “But Here We Are”. Non mancano episodi sperimentali contenuti nella riuscita “Nothing At All” – probabilmente il pezzo migliore dell’album – mentre a chiudere ci pensano le note di “Rest”, una sorta di incontro tra sacro e profano dove le note acustiche si scontrano sul muro fatto di accesi riverberi.
Tirando le somme, i Foo Fighters non hanno in realtà avuto bisogno di alcuna rinascita essendo perfettamente in grado di cavarsela alla grande anche questa volta con canzoni che portano, nel bene e nel male, la loro impronta. Una band che conosce bene come scrivere brani incisivi pronti per entrare nell’olimpo del mainstream targato rock ovvero destinati comunque ad essere ricordati. Ita est!