Ci sono album che potrebbero essere ascoltati e apprezzati nella loro interezza; altri che invece sono più una serie di anime frammentate che però si incastrano tra loro alla perfezione, come un puzzle, o… un sistema solare. L’ultimo album dei Django Django, “Off Planet”, rientra proprio nell’ultima, specifica categoria: “Off Planet” si può descrivere come un insieme di quattro pianeti, variegati ma con anime simili tra loro, che spaziano dal groove al dance pop, in un caos primordiale che paradossalmente dona al disco grande armonia. Un disco che guarda al passato, mettendo insieme trent’anni di conoscenza musicale, ma comunque improntato al futuro; riprende l’house degli anni Novanta (e non solo) ma in ottica avanguardista, per chi è fan di artisti un po’ datati ma va ben volentieri ai rave. Il tutto accompagnato da collaboratori di un certo rilievo come Self Esteem, Stealing Sheep, Yuuko e tanti altri. Ne abbiamo parlato con Dave Maclean, co-fondatore, batterista e produttore della band.
Ascoltare “Off Planet” è sicuramente stato molto sorprendente. Qual è la cosa di cui andate più fieri riguardo la creazione di quest’album?
Penso il fatto che alcuni brani vadano oltre i confini di quello che facciamo normalmente, riuscire a metterci dentro le collaborazioni. Ci abbiamo lavorato davvero sodo, ma direi che occuparsi di tutti i feat e unirli agli altri brani è stato piuttosto difficile a momenti, siamo molto felici di esserci riusciti.
Dato che siamo in tema collaborazioni, parliamo di “Don’t Touch That Dial” con Yuuko, ne sono letteralmente ossessionata. Dimmi tutto a riguardo!
Sì, era un beat che avevo creato campionando varie vecchie canzoni e unendole. Pensavo all’inizio che fosse un po’ strano, un po’ dance. Non avevo la minima idea di cosa farci finché non mi è venuta l’idea di metterci un rapper, ma non volevo che fosse inglese o americano. Mi è tornato in mente che da bambino avevo un disco di una rapper giapponese, quindi ho iniziato a cercare se fosse ancora sulla scena. Sono incappato in Yuuko per caso, le ho scritto e chiesto qualcosa di unico, mandandole qualche riferimento, e lei ha capito subito cosa volevo. Io ne ero completamente sbalordito, dal suo flow, poi quando dice la piccola parte in inglese! Ho pensato che fosse ipnotizzante.
Come vi trovate a suonare questo disco dal vivo?
Non è mai semplice suonare le nostre canzoni live perché sono sempre fatte in modo strano, ma ad esempio “Golden Cross” è una che mi piace molto suonare; porteremo sul palco più canzoni da questo album che da altri, però dovremo evitare quelle difficili da suonare, al massimo potremmo farlo in una special gig in futuro, con l’attrezzatura adatta e tutto.
Le canzoni secondo te preferite dai fan?
Penso che i fan dei Django Django ameranno “Fluxus”, o “Black Cadillac”, ma finora sembrano apprezzare molto “Dumbdrum”; i fan dei vecchi album ameranno le tracce che ricordano loro i vecchi album, ma poi penso anche che tracce come “Don’t touch that dial” ci faranno arrivare nuovi fan. Direi che è un disco che non può piacere a tutti, ma è quel che è.
E se descrivessi “Off Planet” a qualcuno che non vi conosce?
Direi che è un mixtape di 30 anni di collezioni musicali ed esperienza nel panorama musicale; è una sorta di viaggio tra 30 anni di musica dance, composizione, essere ossessionati dai Beatles e dai Beach Boys ma anche dalla techno e dai rave. Un mix un po’ strano, devi semplicemente prendere quel che ti piace e lasciare indietro quel che non fa per te.
Cosa ne penserebbero i Django Django del 2012?
Penso che a loro piacerebbe, questo è il tipo di musica che facevo tra 2003 e 2005; prima di incontrare Vinny facevo techno, hip hop e dance. Stare a casa tutto il tempo a causa del Covid e del lockdown mi ha dato l’opportunità di rivedere tutte queste idee, riprenderle da dove le avevo lasciate e combinarle con i miei gusti attuali e quello che hanno vissuto i Django Django finora.
Un’altra collaborazione molto interessante è quella con Toya Delazy in “Galaxy Mood”: com’è nata?
Questa traccia è nata grazie ad Africa Express e Damon Albarn. Abbiamo fatto una cosa insieme a lui e un giorno mi ha presentato Toya, ci ha messo in una stanza in una chiesa e ha detto: fate una traccia insieme. La traccia è andata bene, poi ci siamo tenuti in contatto, le ho scritto ed è venuta in studio. Il beat su cui canta è una vecchia canzone dance che avevo fatto, chiamata “Bird Call”. Era in un hard drive, già mixata, in attesa di un cantante. Lei ha cantato improvvisando, e io ho pensato al resto, il “galaxy mood” che si sente all’inizio del ritornello è qualcosa che le è venuto in mente a caso riscaldandosi. Lei lavora così, anche i suoi live sono quasi tutte sue improvvisazioni, dice tutto quello che le passa per la testa, è stato decisamente divertente.
L’album è stato diviso in quattro EP, come li distingueresti tra loro? O preferisci considerarli un tutt’uno?
All’inizio l’idea era di fare quattro EP rappresentati da quattro pianeti con quattro diversi sound, quindi: una parte dub, una ambient, una strumentale e una dance. L’abbiamo fatto, ma eravamo annoiati dal risultato, quindi abbiamo mischiato tutto, cercando comunque di tenere un mood per ciascuno. Penso che il modo in cui adesso l’album scorre è molto migliore.
Quando avete iniziato a registrare sapevate già dove volevate finire o vi siete semplicemente messi a vedere come sarebbe andata?
Ci siamo solo fatti trascinare, c’erano un paio di brani che l’etichetta pensava di mettere nel disco ma non c’entravano troppo con l’idea dietro a “Off Planet” e il modo in cui sono stati creati. Direi che siamo stati più rigidi del solito, su cosa ci stava e cosa no.
“Sit down and talk to me / Think of colours, shapes and harmony” (da “Hand of Man”). Come descriveresti questo album visivamente?
L’artwork lo rappresenta molto bene, l’aspetto un po’ sporco dato dai colori spruzzati con lo spray è accurato. Direi che ci stanno molto il fluorescente, il verde e l’arancione.