Davvero nulla di che questo “Everything At Once”, terzo album prodotto dagli statunitensi Cathedral Bells. Il giovane quartetto originario di Orlando ci propone un dream pop innocuo e dolciastro che rispetta con attenzione tutti gli stereotipi di un genere che, diciamocelo francamente, è ormai un po’ troppo inflazionato.
Sarò brutale ma queste sonorità soffici e rarefatte – impupazzate con fastidiosi sussurri, chitarre squillanti e affogate in effetti di ogni tipo – hanno francamente rotto le scatole. Massimo rispetto per chi ancora ha il coraggio di mettersi alla prova con generi musicali dal passato glorioso come il jangle e il dream pop, ma se i risultati devono essere plasticosi e privi di anima come quelli dei Cathedral Bells meglio dedicarsi a qualche altra attività.
Sembra che l’unico scopo del gruppo sia quello di suonare il più carino e gradevole possibile. Le tredici tracce incluse si susseguono senza guizzi; un flusso incessante di melodie eteree e zuccherine dominato dal piattume. Difficile individuare i confini che separano le canzoni di “Everything At Once”, tutte spaventosamente simili tra loro. Si salva solo “Clinging To The Ground”, dove si segnalano parvenze di vivacità rock.
Le perenni atmosfere sognanti sono un mero stratagemma per nascondere una pressoché totale assenza di idee degne di nota. La superficialità regna sovrana in un disco di sterile dream pop da dare in pasto ad ascoltatori distratti. La quantità non irrilevante di produzioni recenti assimilabili al macrocosmo shoegaze ci fa pensare che questo tipo di sound, nella sua accezione più larga possibile, stia tornando di moda in America e non solo. Il che ci rende tutti felici. Ma quando il campo è affollato di giocatori è più facile individuare quelli con poche chance di vittoria. E io non punterei neanche un euro su questi cavalli perdenti. Non a caso sono sotto contratto con un’etichetta chiamata Born Losers Records.