Una domanda sorge spontanea: è mai finita l’epoca del revival post-punk? Cosa potrà mai arrestare l’eterna rinascita di un genere che, nonostante gli sforzi degli innumerevoli epigoni susseguitisi dall’inizio dei 2000 a oggi, ci ha regalato i suoi frutti migliori nella prima venuta di una quarantina di anni fa?
Il discorso è complesso e meriterebbe un approfondimento serio. Io non ho le capacità per spingermi oltre, ma posso fare una piccola considerazione sulle più recenti fasi della reviviscenza. Tante nuove band hanno realizzato debutti convincenti e mantenuto le promesse. Tante altre ancora sono svanite nel nulla, più o meno meritatamente. Quasi tutte hanno prodotto musica solo in apparenza innovativa, spesso limitandosi a rimaneggiare e rimodernare quanto scritto e registrato dai veri pionieri del passato.
I Landowner sono invece delle vere e proprie mosche bianche. Il loro post-punk non sarà innovativo, legato com’è alla tradizione anni ’70/’80 (tra le influenze ci sono The Fall e The Feelies), ma è senza ombra di dubbio molto originale. Sfido chiunque a trovare un altro gruppo capace di dar forma alle atmosfere fosche del post-punk più nervoso e spigoloso sfruttando uno stile musicale simile a quello delle colonne sonore dei vecchi videogiochi a 8 bit, con motivetti ipnotici e note estremamente staccate e distinte tra loro. E non ho neanche fatto cenno alla pressoché totale assenza di distorsioni, un aspetto quasi rivoluzionario per una band rock.
Nella ripetitività tetra e sgangherata delle canzoni di “Escape The Compound” c’è il desiderio dei Landowner di essere al tempo stesso minacciosi e dissacranti. Pur rispettando i loro idoli, il cantante Dan Shaw e i suoi compagni di avventura provano ad allontanarsene mettendo in risalto il lato più ridicolmente disumano e spietato del genere.
Le peculiarità del post-punk vengono sapientemente spezzettate e riassemblate in un mix dal gusto acido. Musica scattosa e senza compromessi, fatta di spoken word (c’è qualche vago sentore di Dry Cleaning), ritmi marziali e riff robotici che si replicano all’infinito, quasi fossero frammenti musicali prodotti in fabbrica.
Il post-punk dei Landowner sembra stravolto dall’azione spersonalizzante della catena di montaggio ma, a modo suo, funziona e non annoia. Da seguire con attenzione!