Quindici minuti. Tanto dura l’album d’esordio dei BEEF, un quartetto di Cincinnati attivo da poco più di un anno. Un gruppo giovane ma con le idee già ben chiare, come ci dimostra alla perfezione questo breve ma gustosissimo disco che contiene otto tracce di garage punk acido, graffiante e lercio.
Ai BEEF basta poco per dar forma a un sound moderno e al tempo stesso primitivo, stravolto da un utilizzo spregiudicato della compressione che tutto preme, compatta, schiaccia. Quattro gli ingredienti alla base dell’opera: chitarre e tastiere ronzanti, che si muovono sempre all’unisono, un basso distorto e una batteria essenziale ma efficace, vera e propria spina dorsale di un album che vive dell’energia sprigionata da rullante, tom e timpano.
Il ricorso agli effetti da parte dei BEEF è eccessivo ma intelligente. Il fuzzbox, come è normale che sia in un album di garage rock, ricopre un ruolo da assoluto protagonista nel disco. La band ne esplora in maniera attenta e mai banale le potenzialità, superiori a quel che si potrebbe pensare, giocando con tutte le possibili sfumature del suono elettrico/sintetico e regalandoci un mare di micro-riff che si spandono per un quarto d’ora di divertimento rumoroso, eccitante e ipnotico.
Nel punk ripetitivo, nervoso, scheletrico e aspro dei BEEF c’è qualcosa di psichedelico. Di melodico c’è poco o nulla, ma gli hook non mancano. Le canzoni sono elementari e strane – talvolta fanno quasi sorridere perché suonano come piccoli scherzetti – ma si stampano in testa sin dal primo ascolto. Il cantato aggressivo di Takoda Hortenberry ha un che di trascinante ma il più del lavoro lo fanno le chitarre di Sam Richardson e le tastiere di Ally Hortenberry, al centro di un’alleanza sonora indistruttibile che rappresenta la vera peculiarità artistica dei BEEF.