Un disco postumo di Mark Linkous ha sorpreso un po tutti, quantomeno i tanti estimatori, anche perché arriva ben tredici anni dopo la sua prematura scomparsa: era proprio il 2010, quando Mr. Sparklehorse lasciava per sempre le sue angosce e paure di una vita che gli ha regalato un talento monumentale, togliendogli, al tempo stesso, quella serenità pratica ed essenziale per andare avanti.

Credit: Danny Clinch

Sicuramente uno dei migliori songwriter della sua generazione, per il sottoscritto il numero uno in assoluto, capace di lasciarci in eredità tre capolavori reali uno dietro l’altro, dal debutto “Vivadixiesubmarinetransmissionplot” al fatidico terzo album “It’s a wonderful life”, passando per il sofferto “Good morning spider”, quindi il quarto “Dreamt for light Years in the belly of a Mountain”, non all’altezza dei citati precedenti, ma comunque notevole, per concludere, quindi, con la compilation “Dark Night Of The Soul” in simbiosi con Danger Mouse, non proprio un disco di Mark, o meglio, canzoni scritte e realizzate partendo da un suo canovaccio, ma completate da i numerosi ospiti top di gamma dell’indie di allora, un’operazione controversa, non per la qualità dei brani, ma per le problematiche legate alla sua pubblicazione, avvenuta, comunque, postuma.

Sostanzialmente, qualità da storia della musica, le sue filastrocche, le sue ballate e il sodale Dave Friedman in cabina di regia a confezionare al meglio, con le solite intuizioni, le bellissime pop songs di Mark.

Erano altri anni, rigorosamente senza il ruolo dei social a dare man forte, quindi Linkous non ha mai raccolto un riscontro di pubblico importante, sebbene fosse osannato e coccolato proprio da colleghi illustri, quanto spesso e volentieri invitato come guest in vari tour.

Anche da questo punto di vista, probabilmente ci ha lasciato sul più bello, comunque, la probabile sofferta decisione del fratello Matt con la cognata Melissa di licenziare “Bird Machine” ci ha regalato parte di un percorso, che probabilmente non sarebbe mai stato reso pubblico.

Era comunque materiale su cui Mark stava lavorando con il solito entusiasmo, racconta, appunto, Matt Linkous, e quindi, anche se arrivato tardissimo, parliamo di un album con un suo senso, che chiaramente non possiamo sapere se Mr. Sparklehorse lo volesse esattamente così, ma chi se non loro, le persone più a lui vicine, potessero prendere tale decisione e rifinire il materiale in tal senso. Credo comunque che ne andrebbe fiero.

“Evening Star Supercharger” il primo singolo, che va ad anticipare il disco in questione, ci riporta esattamente a quegli anni, come se tutto si fosse fermato, utilizzando un plurale maiestatis, considerando il progetto Sparklehorse come una vera e propria band, non è il loro brano migliore, ma è un pezzo gradevole, registrato da Steve Albini, che rispecchia, comunque fedelmente, l’essenza dell’amato marchio di fabbrica di Mark.

“The Skull of Lucia”, secondo singolo, arrivato da un paio di mesi, recupera anche qui tutti gli ingredienti del suo universo agrodolce, trovare un ballata brutta tra quelle scritte e pubbliche, è un’impresa ardua e anche questa, sebbene non la metterei, al momento, in parte ai suoi masterpiece, si fa voler bene, una lo fi lullaby, con cui prendere subito confidenza e viaggiare.

Dopo l’irruente e distortissma “It Will Never Stop”, traccia rompighiaccio, rude e senza fronzoli, che ricorda il primo periodo di “Vivadixiesubmarinetransmissionplot”, arriva “Kind Ghosts”, e qui sono davvero brividi, mi sbilancio nel dire che siamo ai livelli dei succitati capolavori. Ritornello e produzione a braccetto per una ballad irresistibile.

“O Child” va a recuperare l’introspettiva angoscia del Mark più malinconico di “It’s Wonderful Life”, bellissima anche questa, come se il tempo si fosse davvero fermato, frasi fatte, ma è così.

“Falling Down” brano acustico con strofe sognanti e un ritornello più convenzionale, tempo di passare oltre ed immergersi nella totale distorsione di “I Fucked It Up”, compresa l’abituale voce filtrata, tipica scelta di tutta una carriera.

“Hello Lord” altra ballata acustica, più solare e americana, folk rispolverato dal sapore classic.

“Chaos Of The Universe” è indie anni zero, malinconica con un filo di voce tra mille strumenti che creano un piccola orchestra analogica.

“Blue” sul finire di tracklist lascia l’amaro in bocca e azzera la serotonina in un minuto e venti di strumentale.

Mentre “Stay” altra sintetica lovesong, spaziale e lisergica, chiude questo lavoro.

Un album che ha del miracoloso di per sé, soprattutto per arrivare dal nulla, portando nuova musica di un vero maestro, che spero possa essere ampiamente scoperto o riscoperto anche grazie a questo progetto discografico.

Ci sono canzoni, che cresceranno con gli ascolti e la sensazione è che molte di loro siano all’altezza delle sorelle maggiori. Anche se non fosse così, stiamo comunque sempre parlando di un campionato a parte, l’assoluto dell’indie americano.

Chiedere una raccolta da plebiscito, forse era anche troppo, “Bird Machine” rimane un disco molto ricco, sincero e autentico, concluso e prodotto al meglio con amore e consapevolezza, rispettando rigorosamente tutti i dogmi di un percorso artistico straordinario e nel suo piccolo, qualora ce ne fosse ancora bisogno, intento ad elevare nuovamente il talento universale di Mark Linkous.