Settimo disco in cassaforte per uno degli artisti più influenti degli anni dieci, a torto o ragione, e al di là di come la si possa pensare, James Blake ha tracciato un solco, coniugando sapientemente elettronica con quell’attitudine da producer al cantautorato britannico, anche nella stessa rilettura di brani altrui, si percepisce sempre un modo di fare innovativo, quanto, di per sé, originale.
Una carriera che comincia ad essere lunga e ricca di tasselli, l’esordio omonimo sulla lunga distanza del 2010, che già fece gridare ad un piccolo miracolo, quindi il sophomore “Overgrown” un paio di anni dopo, sono solo l’inizio di una lunga serie di pubblicazioni, classiche per certi versi, o sperimentali come, per esempio, l’ultimissima a suo nome, la colonna sonora “Wind Down”, quindi questo disco nuovo “Playing Robots Into Heaven” che arriva dopo collaborazioni eccellenti della scena pop / rap, da Travis Scott a Rosalia, addirittura fino a Beyoncé, il gotha degli artisti con numeri da capogiro.
Venendo all’album in questione, licenziato esattamente due anni dopo l’ultima raccolta di canzoni “Friends That Break Your Heart”, è un disco ricco, lavorato con abilità da fuoriclasse, che ci riporta un artista al centro del progetto, nessun featuring e la voglia di sottolineare il lato più club quasi da dj del suo percorso, alternato, come sempre, a canzoni di grande spessore.
L’apertura rarefatta di “Asking to break”, bellissima di per sé, sussurrata e in falsetto, anticipa la clamorosa “Loading”, scelta non a caso come singolo, uno dei brani più belli in assoluto di una discografia quasi quindicinale, elettronica, al servizio di una scrittura tra le più ispirate di sempre.
Con “Tell Me” si alza il volume per un dancefloor selvaggio, terza traccia parzialmente strumentale, con una produzione allineata, si prosegue subito con un altro strumentale come “Fall Back”, stesso discorso per “He’s Been Wonderful” e “Big Hammer”, house e modernità a braccetto.
Una voce super processata ritorna in “Night Sky”, falsetto per una brano destrutturato e avanguardista.
Mentre “Fire The Editor” ci riporta Blake alle prese con questo suo marchio di fabbrica da cantautore futurista per una ballata moderna quanto efficace, di grande valore con una produzione sopraffina.
“If You Can Hear Me” è un’altra ballad, corta ed eccentrica, quanto essenziale, tra pianoforti accennati, suoni minimali e voci appoggiate, dalla bellezza autentica.
La title track, uscita anticipatamente qualche giorno fa, è un bouquet di suoni sperimentali, quasi improvvisati, che va a chiudere questo nuovo lavoro, sicuramente un ritorno importante, un disco raffinato, ragionato e pensato senza dogmi, come tutta la carriera del resto, con un occhio di riguardo a ciò che è stato fatto finora, ma con la voglia e l’attitudine di chi sa innovare, con l’intento di trovare ancora una nuova via per non ripetersi mai.