Nulla vieta dopo anni di stimato e riconosciuto destreggiarsi fra Roger Waters e innumerevoli impegni di produzione a un funambolo (ex) hippie come Jonathan Wilson di liberare totalmante la sua espressività dando alle stampe si direbbe un album imprevedibile e a tratti bizzarro come questo “Eat the worm”, sesta prova solista del chitarrista statunitense che mischia le carte forse in modo definitvo rispetto alle precedenti produzioni, stilose ambientazioni nel paradiso della musica popolare americana degli anni 70.

Credit: Louis Rodiger

Contorno temporale che anche qui racchiude le trame dell’album, ma che appunto rimane da perimetro delle variabili che di volta in volta il prode Jonathan si permette di introdurre nelle canzoni, da buon artigiano della musica, da perfetto conoscitore di come i generi musicali possano mischiarsi, di come l’abilita tecnica strumentale possa concedere di spaziare solo con la forza e la spinta del susseguirsi delle note suonate per dar vita a melodie innovative, contaminate, libere di volteggiare senza calcolo e libere di essere mischiate a interventi apparentemente incongrui nella costruzione degli arrangiamenti: questa esplicitazione dela consapevolezza artistica a tutto tondo che come si diceva l’esperienza fin qui maturata di Wilson ha costruito nel tempo, è certamante il lusso piacevole di “Eat the worm”, che alterna brani di diversa estrazione caratterizzati da una irregolarità di fondo, a partire da “Marzipan”, quasi dixieland con inserti digitali fuorvianti, a cose spiazzanti e per questo molto interessanti come “Bonamossa”, con l’elettronica fredda e cadenzata quasi Portishead o il singolo “Charlie Parker”, che si lascia andare ad un sax liquido congagioso, in mezzo ad una forza corale di disparati strumenti.

Altrove ci sone canzoni più omogenee, dove in linea coi precedenti album Wilson si ispira al suo consolidato immaginario costruito su sintesi spectoriana (“Ridin in a jag”, “East LA”), con supporti vari forniti da Brian Wilson in salsa west coast, languori alla Bacharach (“Hey love”) assolutamante meritevoli di una considerazione atemporale che si concede solo ai genuini seguaci del gusto della riproduzione.

Un album mai noioso, a volte prolisso specialmente nel pacato cantato del suo autore, che ne attesta comunque le affermate qualità, casomai allargandone ancor di più lo spettro, colloncandone la portata sempre in una dimensione di sincerità mai ambiziosa, lasciando che chi apprezza questo stile se lo vada a cercare, e al buon Jonathan di inseguire chissà quali traguardi se non quelli dell’attinenza al suo invidiabile fantasioso istinto musicale.