Per il suo quinto album Jeff Rosenstock non ha voluto badare a spese. Basta con la bassa fedeltà e l’attitudine DIY: “Hellmode” è stato registrato in larga parte nei leggendari EastWest Studios di Hollywood, un luogo magico in passato visitato dai Beach Boys di “Pet Sounds”, dalla Madonna di “Like A Prayer”, dal Michael Jackson di “Dangerous” e dai Red Hot Chili Peppers di “Californication”. Qui sono transitati anche gruppi come Weezer, Blink-182 e Green Day – veri e propri campioni di quel caro, vecchio pop punk di alta classifica che fu.
Ed è proprio a questo genere ormai giurassico – ma ancora in salute, seppur costretto in un ruolo defilato – che sembra voler far riferimento il Rosenstock di “Hellmode”. Il cantautore newyorchese, senza mai perdere davvero i contatti con l’era moderna, prova a farsi un bel viaggio indietro nel tempo fino ai gloriosi anni ’90, alla ricerca di un sound potente ma pulito. Un mix ben bilanciato in grado di mettere in risalto l’ energia del punk e la raffinatezza di un pop mai così maturo (ma ancora sanguigno).
L’album, che pure suona molto più “ricco” rispetto ai precedenti, è ancora contraddistinto da quel senso di urgenza che è alla base di una buona parte dell’opera di Rosenstock. Le canzoni trasudano rabbia, delusione, ansia e sfiducia nel futuro: è lo stress post-COVID a dominare nei quaranta minuti di “Hellmode”. Un perenne senso di angoscia che, paradossalmente, regala dinamismo e vitalità a undici brani esplosivi, rinfrescanti e soprattutto originali.
Nella musica di Jeff Rosenstock troviamo amarezza ma anche tanto divertimento. Il suo è un bellissimo mostro pop punk/power pop mutante che viaggia a briglie sciolte; un sound unico, orecchiabile ma al tempo stesso complesso, totalmente privo di limiti autoimposti (un eufemismo per indicare il disinteresse dell’autore verso il rock mainstream e la commerciabilità della sua proposta).
L’industria discografica è in difficoltà e le chitarre vengono considerate pezzi di antiquariato a uso e consumo dei boomer? Nessun problema per Rosenstock, che nelle crisi sembra sguazzarci. Nel 2023 il mondo del rock emergente è più piccolo rispetto al passato ma più stimolante. È il momento giusto per recuperare le lezioni di Weezer, Green Day, NOFX e The Muffs, tutte band stimate dall’ ex leader dei Bomb the Music Industry!, e dar forma a qualcosa di innovativo ma non spiazzante. Un esempio di genuina creatività fedele alla tradizione.
Difficile resistere alla forza di un fiume in piena che ci travolge con la potenza elettrica, le emozioni e le melodie che impreziosiscono canzoni di enorme impatto come “Will U Still U”, “Head”, “Liked U Better”, “Future Is Dumb”, “I Wanna Be Wrong” e la lunghissima “3 Summers”; un anthem da cantare a squarciagola giustamente posto in chiusura, tanto per dare un tocco epico all’esperienza di “Hellmode” (come già avvenuto in passato con “Let Them Win” su “Post-” e “Ohio Porkpie” su “Ska Dream”.
Funzionano molto bene anche gli episodi più “morbidi” del disco. Si va dall’amara “Doubt”, che cresce di intensità di secondo in secondo fino allo scoppiettante finale elettrico, alla strepitosa “Soft Living”, un bell’omaggio al miglior alternative novantiano che si muove in bilico tra i Dinosaur Jr. e il Rivers Cuomo depresso ma ispirato di “Pinkerton”. E non dimentichiamoci delle parentesi più o meno acustiche del lavoro (“Graveyard Song”, la weezeriana “Life Admin” e la folkeggiante “Healmode”, molto tenera e delicata) che, nel caso ancora servisse, ci confermano per l’ennesima volta le grandi qualità del Jeff Rosenstock songwriter.