Chi si ricorda dei China Drum? Negli anni ’90, con il loro punk rock energico ma dal forte retrogusto pop, ebbero un discreto successo nella natia Inghilterra. Tre gli album prodotti tra il 1996 e il 2000: “Goosefair”, “Self Made Maniac” e “Diskin”. Il primo registrò un buon risultato nella classifica UK, raggiungendo un rispettabilissimo 53° posto. Oltre a una cover davvero ben fatta di “Wuthering Heights” di Kate Bush, si segnalano tour di supporto a grandi nomi del rock dell’epoca (Ash, Supergrass) e un rapporto privilegiato nientepopodimeno che con i Green Day. Un’amicizia documentata anche nel video di “When I Come Around”, nel quale il bassista Mike Dirnt indossa una loro maglietta.
Dopo lo scioglimento a inizio millennio, una fugace rimpatriata nel 2013 e l’attuale reunion partita nel 2018, i China Drum sono finalmente pronti a rompere un silenzio discografico durato ben ventitré anni. Le quattordici tracce di “One Moment Please” segnano il definitivo ritorno sulle scene per i membri storici Adam Lee (voce, in passato anche batterista) e Dave McQueen (basso). Al loro fianco due new entry: il chitarrista John Steel e sua moglie Kate Stephenson dietro alle pelli.
Una buona notizia, no? Beh…mica tanto. Il disco purtroppo è quasi inascoltabile. Dispiace essere brutale con una band che in passato ha prodotto più di qualche buona canzone. Il tempo, tuttavia, è stato davvero impietoso con i China Drum, che sembrano aver completamente dimenticato come si fa del pop punk decente. I problemi del disco sono tanti e ricoprono più aspetti.
I brani, inutilmente lunghi e articolati, suonano un po’ troppo pretenziosi. I decenni trascorsi dagli ultimi segni vitali hanno arrugginito gli ingranaggi della creatività di Lee e compagni che, come nulla fosse, continuano a coltivare ambizioni per così dire “sperimentali”. Gli sforzi però vanno sprecati malamente. L’esempio massimo di cotale vanagloria è il pasticciaccio simil-trip hop di “Dusking”: un guazzabuglio di rock elettronico noioso e insopportabile che si trascina con fatica per ben dieci minuti.
Ma il difetto principale del disco, l’errore che realmente azzoppa i poveri China Drum, è la qualità pessima delle registrazioni. “One Moment Please” è, senza esagerare, un vero e proprio disastro per quanto riguarda la produzione e il missaggio. Non funziona praticamente nulla: chitarre elettriche “zanzarose”, voce e batteria sepolti nel mix, basso inconsistente, cori e armonie vocali dal volume troppo alto, un perenne senso di mal bilanciamento dei suoni. L’impressione finale è di avere tra le mani una demo non riuscita e dai costi bassissimi.
Probabilmente le risorse non sono più quelle di una volta ed è normale che sia così. I China Drum sono fuori dal giro che conta e difficilmente ci rientreranno. Al giorno d’oggi, però, non credo ci vogliano molti soldi per ottenere una resa sonora degna di album come “Goosefair” e “Self Made Maniac”. E se questa svolta per così dire lo-fi fosse una deliberata scelta artistica? Siamo di fronte a un tentativo di autosabotaggio per suonare più punk rock? Se fosse così, sarebbe una vera e propria follia. A rimetterci sono una manciata di brani che, in altra forma, avrebbero permesso alla band britannica di tornare a casa con un 6 in pagella (“Alka’s Bill Mix”, “Brown Town”, “Cover Flipped”, “Silverskies” e “Sound O Silence”).