I Drop Nineteens tornano a produrre nuova musica a 30 anni esatti dall’uscita di “National Coma”, il loro canto del cigno prima dello scioglimento datato 1995. Questo potrebbe essere considerato il vero grande evento shoegaze del 2023: l’attesissima rinascita artistica di una band che, a distanza di neanche troppo tempo dalla reunion in formazione classica, si ripresenta al mondo con un album dal gusto nostalgico ma non eccessivamente ancorato al passato.

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Dalle undici tracce di “Hard Light” non emergono rimpianti per i gloriosi anni ’90. La band bostoniana torna alle radici del classico sound shoegaze, ma non si limita a seguire alla lettera quanto sentito nel celebre esordio “Delaware” del 1992. Restano totalmente fuori le sonorità più crude e aggressive di “National Coma”, dal quale non si recupera nulla se non quel retrogusto alternative/college rock che ha sempre rappresentato una prerogativa del gruppo di Greg Ackell.

Si avverte una sorta di senso di urgenza da parte dei Drop Nineteens, quasi scalpitanti nel voler dimostrare il loro valore e riavviare una carriera che si credeva finita per sempre. Il gruppo che ha composto e registrato “Hard Light” è formato da cinque artisti maturi e raffinati, ben consapevoli dei mezzi a loro disposizione. Nel disco, questa crescita è davvero tangibile, nonostante l’assenza di vere e proprie novità dal punto di vista stilistico.

Sulle teste dei Drop Nineteens grava da sempre una spada di Damocle: l’etichetta di epigoni americani dei My Bloody Valentine. L’influenza esercitata dalla creatura di Kevin Shields è naturalmente innegabile. Tuttavia, il confronto pesa troppo sulle spalle del quintetto statunitense, che con “Hard Light” prova a prendere le distanze dal sound rumoroso alla “Loveless” per dar vita a una raccolta di canzoni più leggere e facilmente decifrabili rispetto ai canoni tradizionali dello shoegaze. I pezzi sono stilisticamente variegati ed emotivamente coinvolgenti, arricchiti di elementi presi in prestito dal dream pop e dal post-punk.

Le chitarre elettriche creano atmosfere suggestive, sfruttando al meglio il potenziale dell’effettistica. Il suono dei nuovi Drop Nineteens si diversifica seguendo le evoluzioni della sei corde, strumento protagonista dell’intera opera. La band non sembra molto interessata a esplorare mondi elettronici e sintetici: “Hard Light” è un viaggio nel cuore dello shoegaze più umano e melodico, organizzato in maniera tale da approfondire tutti gli aspetti di un genere sì vecchio, ma ancora in evoluzione.

L’anima puramente pop dei Drop Nineteens, già centrale in “Delaware”, è in questo caso in primissimo piano. Le voci di Greg Ackell e Paula Kelley danno forma a intrecci armonici di rara eleganza, spesso in contrasto con le chitarre super-distorte che fanno da contorno a canzoni come “Scapa Flow”, “Gal”, “Tarantula”, “A Hitch” e “Another One Another”. Il consueto rumore di fondo tipico dello shoegaze c’è ancora, ma, come già accennato, non è mai davvero in primo piano. Il sound di “Hard Light” è tutto sommato abbastanza nitido e definito, nonostante il massiccio impiego di riverbero, eco e delay.

Effetti che ricoprono una certa importanza “espressiva” negli episodi più sognanti e psichedelici del disco come la super-atmosferica title track, la lunga “T” (con una intro di batteria pompatissima che ricorda un po’ quella di “When The Levee Breaks” dei Led Zeppelin) e “Rose With Smoke”. Quest’ultima canzone rappresenta la chicca di “Hard Light”: uno strumentale breve, semplice ma incredibilmente emozionante, composto solo da una fitta rete di chitarre elettriche che si fondono tra loro tra plettrate vigorose e arpeggi flebili. Una piccola delizia in puro stile shoegaze d’antan; d’altronde, il genere di riferimento dei Drop Nineteens resta quello. Questo disco però rappresenta una piacevole sorpresa perché ci presenta un gruppo perfettamente a suo agio con tanti linguaggi e stili diversi.

La delicatezza delle melodie è una delle qualità principali dell’album. Il gruppo dà ampio risalto all’immediatezza e alla facilità di ascolto senza per questo snaturare un sound che, purtroppo, non è più capace di attrarre le folle. Alcuni brani però funzionerebbero alla perfezione nelle radio specializzate in musica rock. Un esempio su tutti: “The Price Was High”, un bel singolo che ha il fascino oscuro del revival post-punk ed è cantato dalla sola Paula Kelley.

I 41 minuti di “Hard Light” volano via in maniera assai piacevole tra scosse di elettricità e brevi parentesi di grazia acustica (“Lookout”, “Policeman Getting Lost”). I Drop Nineteens riemergono dal silenzio con un album solido e convincente, completo nel suo riuscire a mettere in luce tutte le caratteristiche di un gruppo ingiustamente costretto a vivere all’ombra dei giganti dello shoegaze britannico. La speranza è che finalmente possano raccogliere le attenzioni che meritano.