Band irlandese trapiantata a Londra, i The Clockworks sono una delle formazioni indie-rock britanniche più interessanti degli ultimi tempi. “Exit Strategy” è il loro album di debutto. E che debutto! Già, perché si tratta di un lavoro magistralmente prodotto da Bernard Butler (Suede) in cui, gli inni suburbani cantati a squarciagola da James McGregor (singer del gruppo), descrivono in maniera quasi scientifica tutta la vita, i sogni e le disillusioni dei teenagers d’oltremanica. Un disco “generazionale”, insomma. Una di quelle opere che spesso fanno gridare al miracolo (a volte troppo prematuramente) la – sempre a caccia di next big thing – stampa inglese.
C’è della sostanza nelle tredici tracce che compongono la tracklist dell’album. Non saranno i nuovi Arctic Monkeys, ma i quattro ragazzi di Galway sanno decisamente il fatto loro. “Lost In The Moment”, per esempio, è uno di quei brani che resta appiccicato nella testa come l’istantanea di un attimo volato via troppo in fretta. È post-punk per per palati fini, quello dei The Clockworks. A patto di non incappare in inutili e deleteri paragoni (Murder Capital, Fontaines D.C.).
Prendiamo la solennità di un pezzo come “Hall Of Fame”. Si tratta di un (bellissimo) brano – più o meno acustico – il cui immaginario è figlio unicamente della personalità (già molto evidente) della band irlandese. Sean Connelly, talentuoso guitarist dei Clock, in alcuni pezzi disegna delle taglienti linee melodiche che si sposano perfettamente con il timbro vocale di McGregor. Come nel caso della scanzonata “Car Song” o dell’epicità di “Feels So Real”. “Enough Is Never Enough”, invece, gira intorno ad un riff che non sfigurerebbe in un’opera degli Yard Act. “Exit Strategy” è un disco dove l’urgenza compositiva e la spietatezza dei testi si incontrano a metà strada, sfumando in un vortice sonoro che non scivola quasi mai nella banalità fisiologica di un album d’esordio.
Anche quando provano ad avventurarsi nei canoni più facilotti del pop-rock mainstream – così come avviene in “Modern City Living (All We Are)” – i The Clockworks riescono a risultare credibili. Tutto merito dell’approccio schietto con il quale i quattro si sono recati in studio e della brillantissima supervisione del già citato Bernard Butler. “Exit Strategy”, dunque, è il debut convincente di una band che si destreggia con estrema lucidità su più fronti sonori. Sia chiaro, non si tratta del capolavoro tanto decantato dai media inglesi, ma di un ottimo inizio di percorso per una formazione che si prepara a diventare uno dei nomi nuovi da tenere d’occhio nei prossimi anni.
Va da sé, naturalmente, che il difficile banco di prova del primo disco quasi mai rappresenta uno scoglio facilissimo da superare. Ad ogni modo, solo il tempo e gli eventuali prossimi step, stabiliranno definitivamente il ruolo dei The Clockworks nella scena musicale internazionale. Il nostro, per ora, è un 7,5 più che convinto.