Ovvero del fare un concerto durante un ponte a Milano.
Che poi a Milano è un super ponte, che noi abbiamo Sant’Ambroues, e quest’anno pare ci sia pure la neve sui monti, per cui tanta gente se ne è andata e, se si escludono le vie centrali dello shopping, Milano è vuota e bellissima.
E quindi in questa Milano vuota bellissima e piovigginosa, questa sera sono ancora al Bellezza, che oramai è il punto di riferimento per quasi tutti i concerti medio-piccoli alternativi. Stasera scendo in Palestra Visconti per Declan Welsh and the Decadent West, che arrivano da Glasgow (dove hanno fatto 50.000 mila persone a un festival, quest’estate) per presentare il secondo e ben riuscito album “2” (no, non è uno scherzo).
Le prime due canzoni sono un po’ di rodaggio, Declan – 23 anni, cantante, poeta, attivista e performer – deve prendere le misure, in palestra ci sono abbastanza persone perché si crei un buon feeling e poi succede qualcosa, come se fosse scattato un clic, e la sua esibizione esplode.
Perché è così Declan: un frontman pazzesco, che balla, suona la sua fender e canta, tutto contemporaneamente, con l’energia, la potenza e la flessibilità di ginocchia che probabilmente puoi avere solo a 23 anni.
I brani vanno veloci, lui sempre sul pezzo, il pubblico (composto in parti uguali da ragazzini e gente più grande) viene chiamato a ballare, e quando dico ballare intendo proprio BAL-LA-RE, non semplicemente il ciondolare avanti/indietro/avanti/indietro che per l’amor del cielo, è la comfort zone di tutti i nostri concerti, ma qui Declan vuole vedere sudore, saltelli, braccia che si agitano. Noi – diligenti – lo seguiamo in questo spettacolo di concerto che si sta creando sotto gli occhi di tutti.
Ma non sono solo canzoni stasera, c’è anche un momento potentissimo, che Declan ripete a ogni concerto, e che riguarda da vicino qualcosa che vorrei non dover raccontare. Nel 2016 Declan è stato invitato a visitare la Palestina, ha vissuto per settimane insieme ai palestinesi nei territori, è stato in campi profughi, ha visto un mondo che non dovrebbe esistere. Questo discorso era già di una durezza devastante prima del 7 ottobre, adesso oltre ad essere un pugno nello stomaco è un qualcosa su cui ho molto ragionato se scrivere o meno, e no, non sono a mio agio a parlare qui di qualcosa che non sia musica, ma non posso far finta che non ci sia. Nessuno dovrebbe far finta che non ci sia.
I do not care what football team you support. I do not care what your views are on independence, what political party you voted for or what religion you are. We have to, as human beings, start from the place where children should not be bombed.
L’applauso che segue è più pesante di un applauso normale, che anche un semplice battere le mani – ne converrete – può avere diversi significati.
La set list è ottima, pesca da entrambi i dischi, i pezzi sono ben eseguiti, senza sbavature, in un crescendo costante e coeso. Per una volta i volumi in Palestra sono buoni, si riesce a godere del suono senza dover ricorrere a tappi abbassa volume, che sempre più spesso vedo comparire ai concerti.
Verso la fine Declan dice una delle cose più belle e oneste che abbia sentito a un concerto
we are here because we need each other
noi abbiamo bisogno di voi, del vostro supporto, e voi avete bisogno di ascoltarci nelle vostre vite. Eccolo qui, in una frase ha condensato con poche parole l’essenza dei concerti, quel cercarsi, quel trovarsi, quell’avere bisogno di uscire di casa per ascoltare una musica viva, più che dal vivo. Quella gioia che solo chi va ai concerti sa cosa sia.
Menzione d’onore al fatto che Declan ha evitato il teatrino degli encore, ha chiaramente detto che avrebbe suonato le ultime due canzoni, e poi giù dal palco, luci in sala, e a me non è restata che la gratitudine e la contentezza di continuare a sentire band in location così. Ti auguro ogni bene, ragazzo from Glasgow, e spero quando sarai super famoso di poter raccontare che un ponte di dicembre io ti ho visto in una palestra sotterranea di un circolo arci con un nome bellissimo.