L’attesa per il primo album della band di Brighton era alta.
“Collateral Damage” (Giugno 2019) e “Body of Itch” (Aprile 2020), i due EP usciti in precedenza, avevano mietuto riscontri positivi e il tour con i Murder Capital li aveva accompagnati e introdotti velocemente nel giro che conta.
La pandemia ha solo rallentato l’uscita di “A Living Commodity”, un album disperatamente voluto, il coronamento di un sogno.
Andy Buss e Leith Ambrose formarono la band nel 2019 e nel giro di un paio d’anni Yannis Philippakis dei Foals li porta con sé nel loro Life Is Yours tour mentre Joe Talbot degli Idles li definisce “fottutamente malati“, un gran bel complimento in certi ambienti alternativi.
Leggenda narra che i quattro, prima di trasferirsi a Brighton, vivessero a Colchester, nella Contea di Essex. Pare che passassero ore e ore perdendosi in jam session assordanti in un appartamento situato sopra una gioielleria. Sempre la stessa leggenda narra che il carburante di natura alcolica avesse un ruolo molto importante in quelle estemporanee esibizioni. Se vi dovesse quindi capitare di essere da quelle parti, magari per la famosa festa delle ostriche, potreste cercare quella gioielleria come quei irriducibili fan che a Liverpool cercano in Penny Lane il famoso barbiere.
Ascoltare un album degli EB non è come prendere un bus hop-on hop- off e godersi comodamente seduti tutte le attrazioni turistiche della città.
Ascoltare “A Living Commodity” è piuttosto salire sulle montagne russe e mentre si sale dobbiamo cercare di esplorare ogni angolo del mondo sottostante che si allontana dai nostri piedi preparandoci alla inevitabile e sostenuta discesa.
Le chitarre di Buss e Ambrose vengono deliziosamente maltrattate a ritmi indiavolati mentre la sezione ritmica sembra assolutamente a proprio agio nel sostenere, sorreggere ed avvolgere il suono delle sei corde.
In questa assurda velocità d’esecuzione i quattro riescono a trovare il modo di abbellire e arricchire il suono con piccoli ma geniali trucchi che le nostre orecchie percepiscono nelle sfumature degli accordi, nei giri di basso arrotondati di Luke Phelps e nella batteria di Isaac Ide capace di assecondare alla grande i cambi d’umore dei compagni (“To be Felt” è il classico brano che ad ogni ascolto ci regala un passaggio, un accordo, una pausa, un respiro che non avevamo notato nei precedenti ascolti).
Se “Matador” e “Nylon Wire” mantengono alti i ritmi sia dall’inizio, in questo album ci imbattiamo in brani che sono segnali indicatori di nuovi sentieri che la band di Brighton sembra tracciare con nuovi suoni ed intensità.
I tumultuosi saliscendi di “Skin” e il crescendo di chitarre propulso da basso e batteria della title track sono due piccoli capolavori. I ritmi fortemente sincopati si placano in “Apparent Cause” che finisce per essere l’esperimento musicale dell’album.
“Suite of Lights” diventa ad ogni ascolto sempre più coinvolgente, come il titolo ispira.
Gli Egyptian Blue hanno superato a pieni voti l’esame del debutto. Il loro suono li caratterizza e li rende riconoscibili. Gran buona cosa in un periodo dove tante post-punk band britanniche si stanno mettendo in evidenza.