Più ascolto “Hrudja” più rimango impressionato. Le sue melodie, “Nijo” piuttosto che “Criure”, mi risuonano nella testa quando mi sveglio, o in altri momenti della giornata come dei mantra magici che al loro interno nascondono cose. La sensazione è che Massimo Silverio faccia sul serio. E per quanto dica di non avere alcuna educazione formale alla musica, il suo rispetto verso la materia è totale e la sua applicazione come artista è profonda e complessa.
In questo disco c’è il ragazzo cresciuto in un paesino delle montagne del Friuli, con il carnico, il dialetto locale che è di fatto la sua prima lingua. E la “villotta”, la forma musicale di quelle parti, da cui dice di avere preso la metrica e il “gusto”. Con tali strumenti della sua tradizione, Silverio sente che si deve esprimere e deve comunicare i suoi sentimenti interiori, il suo rapporto con la sua terra e la natura. Nello stesso tempo, c’è però anche il ragazzo cresciuto con la musica internazionale, con ascolti evidenti e illustri come Talk Talk o Radiohead.
Il risultato potrebbe apparire un disco di musica cupa, ad un primo ascolto. Forse anche a un secondo e a un terzo. Ma se consentite a questo lavoro di entrare lentamente in voi, capirete che è solo musica introspettiva. Musica che potrete portare con voi ovunque. In viaggio, in luoghi nuovi e lontani, così come sul divano di casa vostra. Musica in cui l’autore esplora i suoi mondi interiori e il suo rapporto con il mondo esterno. Il suo amore, la sua passione per la sua terra, per le sue radici. Che si fa universale tramite un’anelito, in lui radicato, ad andare oltre. A comunicare con un pubblico il più possibile vasto e internazionale. Quel che potrebbe sembrare in contraddizione con la scelta di cantare in un dialetto minoritario. Mentre invece, al contrario, proprio questa scelta gli consente di comunicare con chiunque non si accontenti di musica “italiana”. Al pari dei Sigur Ros che cantano in islandese piuttosto che nel fittizio vonlenska, Massimo Silverio non si rende immediatamente comprensibile. In realtà, dice, nemmeno a chi il carnico lo parla, data la ricerca e l’uso da lui fatti persino di termini carnici ormai in disuso. Nonché per il suo modo di cantare, che privilegia il pathos, al pari di un Thom Yorke piuttosto che di un Jeff Buckley, al messaggio testuale. Ma i testi sono importanti per lui e reperibili all’ascoltatore interessato, con traduzioni in italiano e in inglese.
In conclusione, non possiamo che gioire di cuore mentre si chiude un 2023 che vede giovani e nuovi artisti italiani come lui, o Daniela Pes (per citare un altro bellissimo progetto musicale cantato in dialetto), riproporsi finalmente con musica che possa essere rilevante artisticamente e speriamo anche commercialmente, fuori dei confini di un belpaese musicalmente sempre più chiuso in sé stesso. Impermeabile agli stimoli esterni, tanto quanto incapace di uscire all’estero con qualcosa di nuovo e originale. Massimo Silverio ci ha emozionato non solo per la profondità della musica che realizza e di come la realizza, ma anche per lo sguardo elevato che dalle montagne del suo Friuli riesce a offrire su ciò che è dentro di lui (e di tutti noi) e su ciò che lo circonda, ad ampio spettro, e lo stimola a creare un’opera di questa caratura. Decisamente uno dei dischi dell’anno.