Si è fatto un gran parlare negli ultimi giorni di questo “ritorno al passato” dei Green Day. Ben più che della mesta dipartita (o ridimensionamento?) di Pitchfork (fatta eccezione che su queste pagine, naturalmente). Beh, sgomberiamo subito il campo dagli equivoci: per chi scrive, “Saviors” – la nuova creatura di Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Tré Cool – nulla aggiunge all’ormai mastodontico repertorio della band californiana.
Altro che ritorno al passato. Quello dei Green Day assomiglia più ad un inciampo nel futuro. Non basta infatti l’irruenza dei pezzi più tirati del lotto per dare una bella riverniciata al repertorio dei Nostri. Anzi. In alcuni casi l’effetto del già sentito è così forte (ed irritante) che lo skip parte quasi in automatico. Vorrebbero assomigliare ai Ramones, ma gli attuali Green Day sembrano più la copia sbiadita della formazione gloriosa di “American Idiot”, “Boulevard Of Broken Dreams”, “21 Guns”, solo per citare alcuni dei pezzoni che furono.
Certo, il rischio di incappare in una sorta di sfogo da amanti feriti, quando si tratta di gruppi che hanno segnato – nel bene e nel male – la propria adolescenza, è sempre molto alto. Proprio per questo, ci limiteremo ad osservare le lacune musicali di un’opera che non rasenta neanche lontanamente la sufficienza poichè risucchiata in un vortice di piatta mediocrità. “Bobby Sox” – ultimo singolo pubblicato – per esempio, nel ritornello vorrebbe scimmiottare i fasti iconici del “grunge” salvo perdersi in dei coretti dal surf-rock che neanche una band collegiale alle prime armi riuscirebbe a rendere così smaccatamente fuori contesto. E cosa dire di “Living In The ‘20s” se non che se fosse stato un brano partorito dalle menti dei The Strokes questi ultimi sarebbero stati invitati a lasciare gli Stati Uniti nel giro di un paio di giorni?
E lo stesso discorso, volendo, lo si potrebbe estendere pure a tracce quali “Corvette Summer”, “Suzie Chapstick” e “One Eyed Bastard”. Certo, qualche brano – tra i quindici che compongono la tracklist – tutto sommato riuscirebbe pure a salvarsi. “Goodnight Adeline” è un buon pezzo pop-rock. Nulla di trascendentale, sia chiaro, ma nell’oceano grigio di “Saviors” riesce comunque ad emergere dalle acque torbide. Anche la stessa “1981″ non sarebbe male se – particolare non da poco – non assomigliasse ad altre trecento canzoni già pubblicate dalla formazione statunitense. Concludiamo dicendo che “Dilemma” poteva adattarsi bene come titolo di un lavoro che ormai certifica la situazione preoccupante in cui versano i Green Day.
La sensazione, infatti, è quella di una band che dopo la famigerata trilogia del 2012 (“Uno!” – “Dos!” – “Tré!”) abbia un pò smarrito quelle che erano le sue peculiarità più entusiasmanti. Uno dei (già scialbi) singoli pubblicati all’epoca si chiamava “Kill The DJ”. Ecco. Più che il Dj della canzone appena citata, ci sembra di percepire che la band californiana abbia “ucciso” la propria anima in favore di un rockettino scialbo, radiofonico, telecomandato, piuttosto distante dagli inni dirompenti di un tempo.
E chissà se i ragazzi ritratti sulla cover di “21st Century Breakdown” abbiano continuato a baciarsi sulle note dei Nostri o si siano rivolti altrove per ritrovare un pò di vecchio, sano piglio rock.